Capitolo 18 – CHIEDI ALLA MUSICA


27 novembre 2013

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Quando ti senti perduto, quando il cervello, il cuore e lo stomaco ti raccontano che non c’è più niente da fare, sappi che esiste sempre una miracolosa possibilità di salvezza: chiedi alla musica. Chiedi con tutto te stesso. E ti sarà dato.
In quel mattino a Kapingamarangi io non ho dovuto chiedere; la musica mi è stata donata. Ozzy Osbourne, avvolto dalla profonda delusione di tutto il popolo, ha imbracciato la chitarra e ha eseguito la più bella, la più struggente, la più atipica versione del Confutatis maledictis di Mozart che avessi mai sentito. Meglio di quella diretta da Colin Davis. Meglio di tutto l’heavy metal. Ha cominciato con un ritmo di guerra a tutte corde, al timpano ha sostituito il pugno che rimbombava sulla cassa e quando è stato il momento ha levato un canto di rabbia e tenerezza. La sua voce evocava un coro possente: Confutatis maledictis flammis acribus addictis, voca me cum benedictis… Dopo aver abbandonato i dannati alla ferocia delle fiamme, chiamami tra i Beati. Voca me. Chiamami.
Soltanto dopo che Ozzy ha riposto la chitarra il pubblico ministero Hamilton Burger ha ripreso la parola. Purtroppo sapevo benissimo ciò che stava per dire.
“Signor giudice, la storia raccontata dall’avvocato è molto bella, è una storia edificante, e mi sarebbe piaciuto molto, lo dico davvero, potermi associare alla sua richiesta di assoluzione. Ma non posso, proprio non posso. Avrei avuto bisogno almeno di una prova e questa prova non c’è. L’avvocato aveva detto che i denti del pacu erano stati conservati dall’imputato, ora invece afferma che sono stati rubati… è troppo. Perché diavolo avrebbero dovuto rubarli? Che se ne fa uno dei denti di un pesce? Confermo dunque, con forza, la mia richiesta di condanna. Non posso fare altrimenti. Lo pretende il rispetto che devo avere per me stesso e per il mio ruolo in questo processo”.
Mentre Burger parlava il mio sguardo non si staccava dal cancello d’ingresso. Pensavo ai giovedì notte di tanti anni fa quando, da ragazzino, vedevo i telefilm di Perry Mason e non c’era volta che Paul Drake, all’ultimo momento, non arrivasse portando la prova che mancava o l’informazione decisiva. Invece ora niente. Nessuno entrava da quel cancello. Nichi Grauso, il mio Paul Drake, non ce l’aveva fatta.
Ma, l’ho detto prima, a Kapingamarangi c’è un giudice, un vero giudice.
Gomar Maria Golo, detto Slim, è molto alto e voluminoso ma, quando si è alzato in piedi per pronunciare la sentenza sembrava immenso e, di fatto, lo era. Cito le sue parole a memoria perché il vicecancelliere, sconfortato, aveva smesso di scrivere.
“Signor pubblico ministero, chiedendo la condanna per l’imputato lei ha assolto in modo equilibrato e responsabile la funzione del suo ruolo; un ruolo prezioso per la ricerca della giustizia in un processo. Ma io sono il Giudizio. La mia responsabilità è infinitamente più vasta. Io devo tener conto di tutti i ruoli e di tutti, proprio tutti, gli elementi di un processo: prove, parole dette, parole non dette, esitazioni, sguardi, gesti quasi impercettibili… A un giudice non può bastare la conoscenza dei codici, anche se perfetta; un giudice per applicare la legge deve prima saperla interpretare e prima ancora deve avere la consapevolezza di doverla incarnare. Ebbene, in nome di tutto me stesso, del popolo di Kapingamarangi e della Razza Umana, io assolvo l’imputato Stefano Floris dalle accuse e dispongo che sia liberato in questo istante”.
Proprio così: assolto. Slim, seguendo la sua straordinaria sensibilità, lo aveva assolto aldilà di ogni apparente colpevolezza (incredibile questo ragazzone! Entra ed esce nei ruoli che sceglie – guardia carceraria, cuoco, giudice… – infischiandosene delle soluzioni convenzionali; interpretandoli sempre nel modo più intelligente). Una scelta perfetta, per averne la prova non abbiamo dovuto attendere neanche un attimo. Neanche il tempo per esultare al verdetto. Un grido penetrante, infatti, ha risucchiato lo sguardo di tutti verso il cancello d’ingresso. Lì una vecchia reclamava rabbiosamente i suoi denti accanendosi con graffi e calci contro il mio Paul Drake. Era una strana scena, grottesca ma anche epica. Nichi Grauso era vestito da Batnik e avanzava verso il palco col volto insanguinato e un pugno verso il cielo, ignorando completamente la vecchia. Ebbene quel pugno chiuso non aveva un significato politico: era la prova dell’innocenza di Stefano Floris. Dentro quel pugno, infatti, c’erano dei denti un po’ malridotti ma molto simili a quelli umani; i denti del pacu. Nichi li aveva appena strappati dalla bocca di Miriam, la vecchia governante dell’ex imputato. Era lei la ladra. Si era tradita ostentando sorrisi. Infatti quei denti spuntati all’improvviso su gengive nude da decenni erano stati notati da tanti. Troppi perché un detective come Nichi-Batnik-Paul Drake non venisse a saperlo.
Tutto adesso sembrava davvero compiuto. Ozzy Osbourne ha intonato al microfono l’Alleluia di Händel e Gomar Maria Golo, come fosse una reliquia, ha mostrato alla folla la chiostra di denti del pacu.
Finalmente la festa poteva cominciare.
Stefano Floris, detto Lecter, è stato sollevato da un gruppo di entusiasti (c’erano anche Tano Fano, la ex vittima, e Hamilton Burger, il pubblico ministero) ed è sparito alla mia vista verso piazza Orlando. Io invece, trascinato da una folla più esigua, sono finito al Bar Bariccia, da Farfarello, l’unico posto in tutto l’atollo ove si possa bere lo squisito rum Caronte.
È qui che ho conosciuto quell’entità concentrica e cangiante che chiamiamo verità, anzi: La Verità.
Davanti a una bottiglia di rum, il signor Zoro – un nativo – mi ha rivelato che quelli non erano i denti di un pacu, erano la sua dentiera. Qualche anno prima l’aveva appoggiata su uno scoglio per succhiare meglio le cozze appena pescate e un’onda l’aveva portata via. Per tutto il processo aveva avuto il sospetto che si stesse parlando dei suoi denti così, nella confusione della festa che cominciava, aveva raggiunto il palco e aveva chiesto al giudice di mostrargliela. Non c’erano dubbi: stesso incisivo destro un po’ sproporzionato e stesso canino sinistro troppo aguzzo. La Verità, dunque, era la sua dentiera; ma non ne aveva parlato col giudice. “Ottima scelta” ho detto e, sorridendo, abbiamo brindato. Quella protesi non era mai stata sostituita.

Filippo Martinez

COGLI L’ATTIMO

 

da A Civil Action (1998) diretto da Steven Zaillian con John Travolta e Robert Duvall

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