72 ANNI FA NASCEVA JAN PALACH


Editoriale del 25 agosto 2020

 

Quando Jan Palach si dette fuoco, il 16 gennaio 1969, aveva poco più di vent’anni. Li aveva compiuti nell’agosto 1968, qualche giorno prima dell’invasione sovietica di Praga. Nei 4 mesi e mezzo che trascorrono tra i due avvenimenti, il giovane studente di filosofia passa le giornate per le vie della città, scattando foto ai carri armati invasori e ai morti, vittime della repressione. Grazie a questa documentazione potremmo ripercorrere i luoghi del suo cammino e le tappe dolorose che lo hanno portato a sacrificare se stesso. Un gesto clamoroso per un ragazzo che tutti ricordano mite e gentile, introverso ma molto equilibrato. I suoi biografi ne hanno rintracciato le radici nell’avversione per il regime sovietico che aveva criminalizzato il padre pasticcere, in quanto imprenditore privato, gli aveva fatto chiudere il forno e ne avrebbe, secondo il figlio, causato l’infarto che l’aveva ucciso subito dopo. L’arrivo dei carri armati di Breznev era la conferma più atroce di quella natura liberticida dell’URSS che Jan aveva sperimentato per averla vista coi suoi occhi in un viaggio in Russia dell’anno precedente, da cui era tornato scioccato. Ma Palach non morì alle ore 15 del 16 gennaio in piazza San Venceslao, di fronte al Museo Nazionale, quando si trasformò in una torcia umana. Morì all’ospedale dopo tre giorni di agonia, durante i quali riuscì a parlare a lungo con la dottoressa Jaroslava Moserova, una psichiatra addetta ai tentativi di suicidio, alla quale Jan spiegò il senso del suo sacrificio. I loro colloqui furono tutti registrati, così ancora oggi possiamo ascoltare la voce sofferente ma nitida di Palach che rifiuta la definizione di suicida e si sforza di mettere a fuoco il significato di una protesta portata alle estreme conseguenze: “Volevo esprimere il mio dissenso per quello che sta accadendo, ridestare la gente”. Temendo di essere frainteso, insiste nel negare che il suo rogo sia stato frutto di disperazione e segnale impotente di una resa. Al contrario, la fiamma del suo corpo doveva illuminare il popolo e fare luce agli oppressi, non per metterne in scena la condizione disperata, ma per favorirne la speranza.  E’ però quanto scrisse Angelo Maria Ripellino su L’Espresso dell’epoca a centrare al meglio il ritratto di Jan Palach e dei coetanei che rappresentava (come il diciannovenne Jan Zajic, che lo imitò un mese dopo): “il portavoce di una splendida gioventù maturata in tempi di cecità e caligine, che è venuta scoprendo le tradizioni e la dottrina dell’umanesimo e della tolleranza: una gioventù ostile alle transazioni e incapace di rassegnarsi”. Furono la passione per la storia e un profondo senso della giustizia a formare la personalità di questo ragazzo fino a dargli la forza di incendiarsi. Oggi che i giovani sono mediamente digiuni di storia e sempre più incapaci di appassionarsi alla politica, un ventenne che ha sacrificato la vita per la politica sembra una specie di santo medievale, non uno studente di 50 anni fa. E le sue ultime parole pronunciate in ospedale, prima di morire, dopo aver ribadito l’abolizione della censura, suonano come un monito rivolto, più che alla psichiatra che lo ascoltava allora, al narcisismo e all’indifferenza di noi oggi: “Non vogliamo essere presuntuosi, semplicemente non dobbiamo pensare troppo a noi stessi: l’uomo deve lottare contro il male che riesce ad affrontare”.

 

Fabio Canessa (Preside del Liceo Olistico Quijote)

 

il ritratto di Jan Palach e dei coetanei che rappresentava (come il diciannovenne Jan Zajic, che lo imitò un mese dopo): “il portavoce di una splendida gioventù maturata in tempi di cecità e caligine, che è venuta scoprendo le tradizioni e la dottrina dell’umanesimo e della tolleranza: una gioventù ostile alle transazioni e incapace di rassegnarsi” (da 72 ANNI FA NASCEVA JAN PALACH – Editoriale di Fabio Canessa )

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