L’Expo è proprio come uno se lo immagina: un megacirco gastronomico metà fiera metà mostra, una carrellata interminabile sul cibo di tutto il mondo che rispecchia il caos contraddittorio nel quale viviamo. Ogni giovane troverà pane per i suoi denti e ogni vecchietto per la sua dentiera: un colpo al cerchio del biologico e uno alla botte delle multinazionali, mandando a braccetto Slow Food e McDonald’s, la biodiversità e la Coca Cola. Si comincia pagando un biglietto d’ingresso di 39 euri (non 40, come nei flani pubblicitari imbroglioncelli) e si continua pagando ogni assaggio etnico nei vari padiglioni. Tutti molto glamour, perfettamente organizzati e allestiti con gusto, con l’Albero della Vita che troneggia in mezzo a giochi d’acqua. Le crocchette olandesi mi hanno ustionato il palato, ma erano buone, come la birra. Lo stand francese conferma la grandeur e l’orgoglio d’oltralpe: sono gli unici che non parlano italiano, ma francese, vantando ogni genere di cibo come il migliore, a cominciare dalla baguette. Assaggio un dolce specialità della Provenza, presentato in due varianti: au chocolat o au caramel. Chiedo quale delle due sia la specialità più tipica e il cameriere si illumina d’ammirazione, neanche gli avessi recitato a memoria l’opera omnia di Baudelaire: certamente au caramel, quello au chocolat è una versione commerciale, pour les enfants, cioè da bimbetti. Pago 2 euro e 50 e prendo quello au caramel: rimango abbastanza soddisfatto, ma mai quanto il cameriere, che mi guardava come se stessi masticando oro zecchino. Ho perso troppo tempo nel padiglione italiano: un infinito percorso pubblicitario di tutte le marche nostrane, dal Grana Padano alla Findus, con video e foto extra-lusso proiettate su pareti gigantesche. Lo stand della Coca Cola è una lezione di storia della bevanda, dalla sua nascita ad Atlanta fino ai giorni nostri, compreso l’embargo che ancora subisce da Cuba e dalla Corea. Da segnalare l’architettura eccellente del Giappone, l’ottimo vino di Israele (con proiezione di un video di strepitosa qualità tecnica) e la tristezza del padiglione di San Marino: in tutti gli altri lunghe code e lì non ci va nessuno. Per cui non ci sono andato nemmeno io. L’unico posto dove non si mangia è lo stand della Santa Sede: un arazzo di Rubens sull’Eucarestia, foto di gente che muore di fame, un tavolo multimediale con immagini di suggestiva quotidianità e, in tutte le lingue, la scritta “Non di solo pane vive l’uomo”. Da ogni altra parte sarebbe forse prevedibile, ma al centro del magnamagna Expo fa un effetto dirompente. Insomma, un caravanserraglio smisurato in cui è impossibile annoiarsi, ma dove ci si perde come nella selva ariostesca ed è dolce naufragare, ma si naufraga. Buon per noi che, all’uscita, ci siamo diretti sui Navigli, con la Darsena appena tirata a lustro da Pisapia: un piccolo mercato a misura d’uomo, curato e ricco di leccornie milanesi, piste ciclabili, un ristorante delizioso con le anatre che scorrono sull’acqua. Uno squarcio di Venezia al centro di Mllano, un’oasi a misura d’uomo per sentirsi e restare umani. Salutare antidoto al disumano e stupefacente spettacolo dell’Expo.
Fabio Canessa
preside del Quijote, Liceo Olistico di Aristan
COGLI L’ATTIMO
Adriano, Giuliano e la Darsena di Milano