Capita spesso che, incontrando ex-studenti o genitori di ex-studenti, sorga spontanea (come scrivono gli alunni tonti nei temi) la domanda su che cosa gli ex-bimbi stiano facendo nel mondo. Siccome in genere ristagnano all’università per decenni, la risposta più frequente è che mancano ancora tot esami per la laurea, triennale o finale. Superato questo traguardo, ci si addentra in dichiarazioni molto più imbarazzanti: l’ex-bimbo (nel frattempo trentenne) si è laureato da anni ed è in attesa di un lavoro, che non arriva. Dopo tanto tempo, all’incontro successivo, con febbrile apprensione, la mamma dagli occhi luccicanti annuncia che il figlio è in dirittura d’arrivo per cogliere un’occasione strepitosa. Che, quasi sempre, a me sembra una stronzata assoluta. Del tipo, “pensi che gli hanno promesso che forse, tra sei mesi, potrebbe lavorare in un bar e spostare un cucchiaino. Mica che lo assumono, eh. Però intanto ha già un piede dentro il bar”. Io non so da che parte guardare e dove trovare la convinzione di congratularmi per questo promettente inizio di una brillante carriera. Ma ci pensa lei a togliermi dal disagio, comunicandomi garrula che, per esercitarsi a entrare nel mestiere, quel bravo figliolo sta sempre a casa a spostare cucchiaini, facendo di continuo le prove in modo da presentarsi sul posto di lavoro preparato a dovere. Passano gli anni, i mesi e, se li conti, anche i minuti, cantava De André, ritrovo la mamma indignata che, appena mi vede, parte con la straziante litania: “Lo sa cos’è successo? Il cucchiaino non l’hanno mica fatto spostare a lui. Hanno preso la solita raccomandata, un’incapace totale. Pensi che addirittura ha fatto cadere il cucchiaino. Però va a letto col cameriere e pare che l’abbia data anche al padrone del bar. Solo in Italia succedono queste cose, poi ci credo che i laureati vanno all’estero”. Qui non ho difficoltà a mostrarmi sinceramente avvilito: non posso rimanere indifferente al dramma dell’aspirante spostatore di cucchiaini. Così entusiasta alla prospettiva di fare un mestiere del cazzo, così solerte nell’allenarsi in un’operazione idiota e così frustrato dallo smacco ricevuto. “O natura, o natura/ perché non rendi poi/ quel che prometti allor?”, scriveva Leopardi. Pur concordando con l’amico Vittorio Sgarbi che “carriera” e “pensione” sono le parole più tristi del vocabolario e dell’esistenza terrena, mi chiedo cogitabondo quale carriera attenda quel bravo giovine e quando e come potrà godere della pensione. Che scandalo poi quella sciacquetta che si è prostituita per spostare lei il cucchiaino. E che ingiustizia non averla licenziata quando l’ha fatto cadere! E’ stupefacente verificare ogni volta quanto queste mie miserabili considerazioni confortino l’animo della madre affranta. E l’infame sorrise.
Fabio Canessa
(preside del liceo olistico “Quijote”)