Non c’è dubbio che Franco Battiato sia stato uno dei grandi della musica italiana. Il dubbio è che i suoi fan lo abbiano equivocato: ne parlano come fosse Rilke, invece era Andy Warhol. De Gregori, Vecchioni, Venditti e compagnia cantante rientrano nella modernità, cioè nel fare poesia partendo dalla realtà e dalle esperienze personali: detto alla buona, tu provi un’emozione, questo sentimento esce da te, picchia da qualche parte, colora del suo umore qualche oggetto, persona o paesaggio che incontra e questo qualcosa così colorato viene cantato, diventando poesia (basta ascoltare “Rimmel” o “Luci a San Siro”). Battiato invece è il primo grande postmoderno, perché ha costruito testi e musiche delle sue canzoni non con i mattoni della sua vita (appartata e misteriosa come la malattia che lo ha ucciso) ma con quelli della cultura che c’erano già: la poesia si sprigiona dal corto circuito tra gli accostamenti di elementi preesistenti, per vedere l’effetto che fa (diceva Jannacci, anche lui moderno senza post). A volte per rievocare la suggestione di un clima (Nijinsky e Stravinsky sulla Prospettiva Nevski, la casa di Tiziano a Pieve di Cadore), altre volte per decontestualizzare con ironia pop (Beethoven e l’insalata, Amanda Lear e il Mantra), altre ancora per puro gusto citazionista (la quarta sinfonia di Brahms, Like a rolling stone). Talmente postmoderno che “Povera patria”, uno dei pochi brani in apparenza “impegnato” al modo dei cantautori tradizionali, è stata esaltata in questi giorni come una canzone di destra dalla destra e di sinistra dalla sinistra (con Guccini non sarebbe successo): segno che non è di destra né di sinistra, ma una bellissima canzone postmoderna, come “Alexanderplatz” scritta per Milva o “Non so più cosa fare” cantata nel tripudio della postmodernità insieme a Celentano, Sangiorgi e Jovanotti. Ma il postmoderno è di per sé blob, superficie, gratuito gioco intellettuale, loop tautologico e nichilista di rimandi, allusioni e riciclaggi con l’estetica del videoclip e l’etica di un ologramma. Invece il colpo d’ala di Battiato è stato quello di spiritualizzare il postmoderno, imprimergli una direzione verticale e fecondarlo con la reincarnazione e la new age, screziandolo d’oriente. Anche nell’intonazione ascetica di una voce molto diversa da quella profonda di De Andrè o da quella jazzata di Dalla. Nei suoi dischi più belli, come “Fisiognomica”, “La voce del padrone” e, su tutti, “L’arca di Noè”, la fusione è riuscita a meraviglia. E poi è stato un benefattore, perché ha fatto provare il brivido della cultura e della religione a tanti bestemmiatori ignoranti che si sono commossi alle citazioni di filosofi o mistici che ‘sticazzi, però solo sentirne i nomi, René Guenon o Mustafà Mullah Barazani, li ha gratificati più di un dottorato alla Sorbona.
Fabio Canessa (Preside del Liceo Olistico Quijote di Aristan)
“Non è di destra né di sinistra, ma una bellissima canzone postmoderna… cantata nel tripudio della postmodernità insieme a Celentano, Sangiorgi e Jovanotti.”
Da BATTIATO, IL POSTMODERNO MISTICO – Editoriale di Fabio Canessa (Preside del Liceo Olistico Quijote di Aristan)