BUON COMPLEANNO A GUELFI E GHIBELLINI


Editoriale del 2 febbraio 2016

Proprio in questi giorni ricorre l’ottocentenario della nascita dei guelfi e dei ghibellini: era infatti il febbraio 1216 quando, durante una cena in una villa di Firenze, un tal Buondelmonte dei Buondelmonti, che doveva avere bevuto un po’ troppo, tira una coltellata a un certo Amidei. La famiglia Amidei la prende malissimo e Buondelmonte si impegna, come atto riparatorio e pacificatorio fra le due famiglie, a sposare la nipote dell’accoltellato. Ma la sposa, dice lo storico dell’epoca Dino Compagni, era brutta come una scimmia, e la mattina delle nozze tutti gli invitati, di fronte alla chiesa di Santo Stefano al Ponte (Vecchio), aspettano invano lo sposo che non si presenterà mai. La sposa piange a vita tagliata e i parenti le promettono vendetta tremenda vendetta. Riunione notturna degli Amidei, che, dopo lunga e animata discussione (come si scrive nei verbali dei consigli di classe), decidono di uccidere Buondelmonte. Uno degli Amidei, soprannominato il Mosca (XXVIII canto dell’Inferno) taglia corto le esitazioni degli altri, pronunciando la famosa frase “Cosa fatta capo ha”, come dire non pensiamoci più e facciamolo fuori. Così la mattina del lunedì di Pasqua gli Amidei si nascondono sul Ponte Vecchio (dietro la “pietra scema” della vecchia statua che Dante credeva di Marte e invece era di un re barbaro, probabilmente Totila, vicino alla chiesa del matrimonio sfumato) e, quando passa Buondelmonte a cavallo, lo tirano giù e lo uccidono. Da questo esipodio, come diceva Totò, inizia la separazione tra guelfi e ghibellini, poi mascherata alla meglio da ideologie contrapposte che in realtà vengono dopo la faida familiare (che diventa ben presto economica e di potere). Grosso modo i ghibellini dovrebbero essere per l’impero e i guelfi per il papato (ma Dante, che era più di tutti per l’impero, era guelfo, seppure bianco, cioè della parte più vicina ai ghibellini). Sembra che la definizione dei due partiti si debba a Brunetto Latini (l’omosessuale ammirato da Dante), ma i nomi vengono dalla Germania: i ghibellini da Wibeling, castello degli Hohenstaufen, ostilissimi al papa, e i guelfi dalla famiglia dei Welf, duchi di Baviera, nemici giurati degli Hohenstaufen e dunque amici del papa. In cifre offensive, ghibellino era sinonimo di eretico e guelfo di baciapile clericale. Per cui gli storici più seri e aggiornati, per tracciare un bilancio di chi abbia favorito il progresso economico e la ricchezza e di chi sia responsabile della decadenza, rifiutano la distinzione fittizia tra guelfi e ghibellini e preferiscono piuttosto seguire le dinamiche dei ceti sociali (artigiani, mercanti, banchieri) trasversali ai due schieramenti. Per noi che vediamo le cose a 800 anni di distanza la visione di Dante sembra assai miope, perché la classe mercantile contro la quale egli si scaglia in nome degli antichi valori sarà quella che renderà Firenze ricca e illustre, quella che costruirà la città che ancora oggi tutto il mondo ammira e visita. La volgarità del mercante che pensa ai quattrini, che abbandona e trascura la famiglia per andare a tentare la fortuna in terre lontane, viene stigmatizzata da Dante (che vi scorgeva anche il tarlo della corruzione morale: fu l’epoca nella quale molti arricchirono a dismisura e resero Firenze così com’è, ma altrettanti finirono sul lastrico e si suicidarono, come l’anonimo fiorentino della selva dei suicidi). L’energia imprenditoriale scaltra e azzardosa, nutrita dei nuovi valori del denaro e della fortuna (certamente antiguelfi), era sentita da Dante come un pericoloso salto nel buio che portava al peccato morale e al disfacimento dei fondamenti civili. Tanto che, più tardi, proponeva addirittura il ritorno del Sacro Romano Impero, ormai fuori tempo massimo (come dimostrò il flop della discesa in Italia di Arrigo VII di Lussemburgo, che nessuno si filò, morì nel disinteresse generale in Toscana, il corpo fu lessato a Suvereto e sepolto nel Duomo di Pisa, dove si trova ancora, sotto la statua di Tino da Camaino). Un po’ come se oggi, in Italia, rifiutandosi di votare Renzi, Grillo o Salvini, qualcuno auspicasse il ritorno dei re e si dichiarasse monarchico. Una posizione poetica ma, come tutte quelle poetiche, anacronistica.

Fabio Canessa
preside del Quijote, Liceo Olistico di Aristan

COGLI L’ATTIMO

 

da Miseria e nobiltà (1954) diretto da Mario Mattoli, tratto dall’omonima opera teatrale (1888) di Eduardo Scarpetta. Con Totò

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