Prima che vada via. La pupa ha una voce artigliata dal blues, tracanna whiskey e con le mani elettriche disegna nell’aria ghirigori pieni di fremiti. Ha gambe lunghe infilate in una gonnellina striminzita di lustrini rossi. Quando si agita nei picchi di voce le tettine sobbalzano dentro la canotta lassa. È posseduta da Etta James e il mio negroni è feroce in gola e il locale è caldo e accogliente. Il chitarrista si estenua, sprofonda nella solitudine di un assolo tutto liquido, sinuoso e discreto. È un ganzo. Prima che vada via. La tipa al bancone mi regala qualche occhiata, un bel pezzo di femmina, nulla da dire, è che sono bollito e tiro giù un altro sorso e scrivo due appunti senza farmi notare, con pudore, perché nel cervello mi friggono maledetti, ridicoli monologhi da reduce. Prima che vadano via, vedete, è progressiva come le ferite sulla carne la cittadinanza al mondo degli sconfitti. Graffio, escoriazione, squarcio, spappolamento irreversibile. I reporter di guerra, quasi sempre, vanno e vengono. E al ritorno nel mondo delle cose facili la sensazione di appartenere qualcosa di giusto e decente e bello convive con la memoria della trincea, dei profughi, della bambina siriana col piffero di plastica che tremava di freddo nella Istanbul dei nuovi grattacieli, rannicchiata su se stessa e un volto da animale terrorizzato. Mi ha lasciato stecchito. Prima che vada via questa compresenza di mondi, vi voglio dire che non c’è modo che capiate attraverso le pagine di un giornale, nemmeno attraverso il miracolo di una poetica nascosta fra gli oggetti lucidi della cronaca. Il reporter è condannato all’identità dimidiata. Ti chiedono, al ritorno, ma tu non ne hai voglia e nemmeno la forza. Laggiù è un altro affare. Laggiù siete un altro uomo e un’altra donna. Laggiù ballate un’altra condizione dell’essere umano. L’alfabeto delle cose è traslitterato e voi lo capite, la storia parla con l’accento della distruzione. Ma dura poco, la carne reagisce subito. Tornati a casa, rispolverate l’ovvietà del cinema e del cibo, le figure vestite di abiti puliti, la cortesia affettata, la possibilità del sesso, il piacere a portata di mano, in tutte le sue declinazioni. Sono mondi entrambi veri, va da sé. Ma geografia e tecnologia vi fottono. Si trovano in due luoghi antinomici dell’universo. Per questo assistere allo sport del giudizio, dell’elucubrazione, della figurina sui social network, ve lo dico, è un paletto di frassino nel cuore per voi che vi siete sbattuti a inseguire e scrivere e ascoltare. Penso ai fatti di Parigi. A tutto l’elenco di omeriche minchiate che ho dovuto leggere e sentire. L’odio e la benevolenza ludici, nei saldi dello spettacolo globale. L’illusione di esser serviti, anche se per poco, caracollando storti nel vostro piccolo racconto, crolla come un castello di sabbia in riva, calciato da una massa di bambini viziati e arroganti. Siamo noi. Per questo, prima che vada via, questa cosa ve la volevo dire, questo appunto minimo inciso sulla pelle. Poi ho ordinato il secondo negroni come uno di quei personaggi impenetrabili e cazzuti di Hemingway. E mi sono concentrato sulle gambe della pupa del blues. Cazzo, che gambe.
Luca Foschi
(Inviato di guerra da Aristan\ Aristan’s war correspondent)
COGLI L’ATTIMO
Etta James