Avevo pensato a tutt’altro editoriale. Ma è il sole con chiaro passaporto di maggio che sbatte sui muri ed entra in questo ventricolo di periferia, piccoli cortili affastellati in un cuore spigoloso di cemento, architetture spremute in fretta mentre la città smisurava. La finale degli internazionali di Roma fra Federer e Djokovic è appena finita e lui, il bimbetto, sbuca ganzo con la racchetta, i ginocchi rotondi come mele e gli occhiali che vengono giù sul naso. Sarà un uomo a modo. Solo di recente sono sfumati gli strepiti materni, coltelli nella gola del mattino, quando il campione resiste ghandianamente al giorno scolastico, rincoglionito in un luogo deserto e sognante fra i cartoni animati e una necessaria, infinita bacinella di caffellatte. Il papà aiuta nelle faccende domestiche e lascia sempre il portone aperto, quando mi vede sbucare all’angolo della strada. Il bimbetto ora prende a pallate gli spazi che avanzano fra un’inferriata, una caldaia, una pompa asserpentata su un gancio, una finestrella, una porta, un barbecue. Oltre il muro un senegalese cerca la Mecca col tappeto. Si genuflette, sfiora le palpebre chiuse con i polpastrelli. Poi vola via. Sogno spesso di tuffarmi dal terzo piano e atterrare sul suo gigantesco e affollato campo da tennis. Sogno spesso di inginocchiarmi, guardarlo attraverso le lenti e dirgli qualcosa. Ma non so cosa. Forse che le domeniche sono perfette per ricordare i denti bianchi di una ragazza, o che il declino di Nadal somiglia al destino di Achille, oppure che lui è una docile fibra dell’universo e io lo contemplo: che bisogna essere attenti, gentili, spietati. Ma, per cominciare, che quel rovescio non è un rovescio ma un terribile pasticcio in pagina. E che un po’ lo invidio. Maledizione se un po’ lo invidio.
Luca Foschi
(Inviato di guerra da Aristan\ Aristan’s war correspondent)
COGLI L’ATTIMO
nel corso di una esibizione al Madison Square Garden di New York tra Roger Federer e il bulgaro Grigor Dmitrov un bambino …