La nostra vita di spettatori è scandita da film e spettacoli che ci piacciono o no, ma rare sono le epifanie del genio e si diradano col passare degli anni: la prima volta che vidi Totò diretto da Pasolini oppure la visione da bambino di “Amarcord”, dopo essere entrato in un cinema senza sapere chi fosse Fellini, o la scoperta delle strisce di Charlie Brown e del suo mondo senza adulti. Più o meno negli stessi anni, la radio di Arbore e Boncompagni, il cabaret di Cochi e Renato, lo straniamento bislacco delle apparizioni di Celentano e i racconti horror di Lovecraft. E poi l’irruzione di un presentatore aggressivo e maldestro, che parlava in un grottesco accento tedesco, mentre saliva e scendeva le scale in una corsa ansiogena e nevrotica, annunciando assurde magie puntualmente fallite. Teneva in braccio due cammelli di stoffa e assicurava che da un momento all’altro si sarebbero messi a cantare, poi ordinava fino a implorarli di intonare la canzoncina “Siamo due cammellini di peluche”, garantendo che alle prove l’avevano cantata benissimo. Dopo un’attesa imbarazzante che mi sembrava infinita, i cammellini naturalmente rimanevano zitti, lui li metteva via con malcelato disagio e passava a un’altra fesseria impossibile, dal medesimo esito fallimentare. C’era già in nuce tutta l’arte iperbolica e paradossale di Paolo Villaggio, fatta di crudeltà bambinesca, surreale buffoneria autolesionista e smascheramento dell’ipocrisia cialtrona che governa il rapporto tra l’urgenza esibizionista dell’uomo di spettacolo e il pubblico da lui blandito e ingannato. Poi arrivarono Fracchia e Fantozzi, la lotta con la poltrona e con i congiuntivi rovinosi, Olmi e Fellini. Ma l’imprinting rimase quello del presentatore nazista, ridicolo e spaventoso. Quando diventammo amici, mi disse che la madre era una professoressa di tedesco, e nella mia mente il goffo Kranz allargò le sue spire di comicità minacciosa alla figura materna, fonte originaria di ogni potere e della sua natura untuosa e tirannica, pronta appunto a blandire e ingannare, sostanzialmente cialtrona. E la televisione degli anni Sessanta e Settanta è stata la mamma di molte generazioni. Quello che immalinconisce non è solo la morte di Villaggio e la tetra operazione di cancellare dalla memoria del cellulare un altro numero, ma la penuria del ricambio. Ai Sordi, Tognazzi e Manfredi subentrarono i Villaggio, Pozzetto e Montesano, a questi i Benigni, Verdone e Troisi. Ma oggi non riusciamo a vedere nessuno all’orizzonte, tranne forse Checco Zalone. Come urlava affannato il terribile presentatore in pieno marasma, con il suo italiano germanizzato: “chi fiene foi atesso?”
Fabio Canessa
(preside del liceo olistico “Quijote”)
Se un ragno velenoso vi morde, correte al pronto soccorso (da FACEBRUT, editoriale di Fabio Canessa)