Quando ero bambino ho fatto in tempo a sentire la frase “Ti ci vorrebbe un po’ di Corea”, rivolta a giovani viziati o schifiltosi da qualche anziano memore della guerra combattuta negli anni Cinquanta. Se non finisci il cibo che hai nel piatto o ti stanchi di fare le scale a piedi, “ti ci vorrebbe un po’ di Corea”, a marciare coi fanti e sperimentare l’ospedale da campo. La frase mi è venuta in mente dopo la vittoria della Palma d’Oro a Cannes del film coreano “Parassita” di Bong Joon Ho. Mentre tutta la nostra stampa dava per certa la vittoria di Pedro Almodovar e assicurava che Marco Bellocchio non sarebbe uscito dal Festival a mani vuote. Invece “Il traditore” racconta la storia del pentito Tommaso Buscetta, le cui vicende e il contesto sono ignoti a un pubblico internazionale (qualche giornale francese, recensendo il film, ha sbagliato pure il nome del giudice Falcone) ed è stato ignorato dalla giuria. L’accoglienza trionfale della critica per “Dolor y gloria” ci sembra esagerata: sarà che rimpiangiamo l’Almodovar divertente e scoppiettante, mentre stavolta Pedro sembra aver smarrito il senso dell’umorismo e dell’ironia, ma questa malinconica ricostruzione autobiografica ci ha dato l’impressione di essere troppo fine a se stessa, statica e un po’ noiosa. L’autoritratto di un regista in crisi creativa, afflitto da dolori alla schiena, dalla dipendenza dall’eroina e dalla nostalgia del passato e dei primi amori gay, nelle intenzioni dovrebbe essere “Otto e mezzo”, invece più che Fellini sembra Nanni Moretti. Non possiamo dire che il film sia brutto: la messinscena riserva qualche idea interessante e Banderas è un protagonista così bravo che si è giustamente meritato il premio come miglior attore. Però, tra uno sbadiglio e un’occhiata all’orologio, viene da pensare che emozioni più Almodovar dello spettatore (specialmente se non è regista né gay né eroinomane). Per eccitare il pubblico, per l’appunto, ci vuole un po’ di Corea, come sa chi ha visto “Snowpiercer”, l’opera più nota del vincitore Bong Joon Ho. Ma come sa anche chi ha frequentato i festival di Cannes, Venezia e Berlino nell’ultimo decennio: Kim Ki-duk, Tsai Ming-liang e Park Chan-wook sono tre autori coreani ai vertici del cinema contemporaneo. Mentre l’Occidente rimastica stancamente un cinema d’autore estenuato, l’Oriente mostra una vitalità straordinaria, utilizzando senza vergogna i generi e frullandoli tra loro in una miscela esplosiva: il melodramma, il comico, l’horror, l’impegno sociale, l’erotico, shakerati in salsa splatter con una buona dose di grottesco e un pizzico di poesia, formano un cocktail dai sapori forti e inediti. A queste latitudini i cinefili trovano quelle emozioni che prima cercavamo nei film americani ed europei: Tsai Ming-liang è l’Antonioni del Duemila, Kim Ki-duk è un mix di David Lynch e Ken Loach, per azzardare rozzamente qualche definizione sommaria. Anziché crogiolarsi sul proprio ombelico o compiacersi delle citazioni, i coreani raccontano storie senza farsi mancare niente, cariche di umori e fresche di energie, in sintonia con la mescolanza di stili e il gusto satirico ultraviolento familiari alle nuove generazioni. Premiando Bong Joon Ho anziché Almodovar, Dolan, Bellocchio, Loach, Malick o perfino Tarantino, Cannes ha trascurato l’Europa perché ha guardato al futuro. Premiando Salvini in Italia, la Le Pen in Francia, Farage in Gran Bretagna e Orban in Ungheria, l’Europa ha invece affondato se stessa. Col rischio che sperimenteremo davvero “un po’ di Corea”, nel senso punitivo che intendeva il vecchietto di tanti anni fa.
Fabio Canessa (Preside del Liceo Olistico Quiijote di Aristan)
Per eccitare il pubblico, per l’appunto, ci vuole un po’ di Corea, come sa chi ha visto “Snowpiercer”, l’opera più nota del vincitore Bong Joon Ho (da CI VUOLE UN PO’ DI COREA – Editoriale di Fabio Canessa)