Viviamo tempi di crisi, ma quella economica non è la più grave. Diventare più poveri potrebbe migliorarci; di sicuro nessuno è mai migliorato diventando più ricco. Tornare alla lira potrebbe non essere una catastrofe e ci costringerebbe a fare i conti con noi stessi, a fare affidamento su ciò che siamo, piuttosto che su ciò che abbiamo. Lo spread più allarmante non è quello tra il valore della nostra moneta e i Bund tedeschi, ma quello tra il nostro immaginario odierno e quello passato, tra la capacità di sognare che abbiamo oggi e quella che avevamo qualche decennio fa. Il vero dramma è la morte del divismo. Quell’aura di sacralità che circondava attori e cantanti, politici e scrittori, pittori e calciatori si è squagliata come un gelato cattivo. Quarant’anni fa, di questi tempi, trionfava per le vie d’Italia il Cantagiro, tra ali di folla esaltata che si accalcava per conquistare l’autografo di uno delle decine di cantanti che si esibivano nelle serate estive. Bastava la presenza di una star del cinema, italiana o straniera, a riempire le sale che proiettavano un suo film. Adesso chi si strappa i capelli per un cantante o quale attore può garantire il successo di un film? Vado a vedere Alberto Sordi, si diceva, Tognazzi, Manfredi o Marlon Brando; avete mai sentito dire ‘vado a vedere Favino, Accorsi, Silvio Orlando o Matt Damon’? Non parliamo dei politici: all’amore e all’odio suscitato dai Berlinguer e dagli Almirante si è sostituito il disprezzo disgustato e indifferenziato, la mesta tiritera qualunquista del “sono tutti uguali”. Il divismo spaventava i borghesi bempensanti, sempre pronti a minimizzare il culto sfegatato dei nostri beniamini: è stupido idolatrare qualcuno, dicevano seriosi, non ha senso chiedere l’autografo, sono uomini come noi, come tutti. Avevano torto: il divismo era la benzina dello spettacolo, nutriva il sogno e alimentava l’emulazione. L’obiettivo era cantare come Mina, recitare come Mastroianni. E’ un po’ difficile adesso aspirare a cantare come Marco Carta o a recitare come Sergio Castellitto. E’ doveroso santificare il talento e quando scarseggia ci scopriamo tutti più poveri e tristi. Viviamo senza miti, senza modelli, perché avvertiamo che ora è vero che gli scialbi vip odierni sono uomini come noi, come tutti. Aveva torto Bertolt Brecht a definire beato il paese che non ha bisogno di eroi. Di eroi ci sarà sempre bisogno. E quanta meschinità si annida nel proverbio che nessuno è un grand’uomo per il suo cameriere. Affermazione verissima, perché l’imperfezione è di tutti, però chi spettegolasse che San Francesco aveva i piedi sporchi meriterebbe l’Inferno. Magari sarà anche stato vero, visto che camminava scalzo, ma è nobile chi celebra la grandezza, non chi la ridimensiona con l’ottica volgare, per l’appunto, del cameriere. Quello che rischiamo di diventare tutti, se non osserviamo il pensiero di Pascal secondo cui non occorre spegnere le lampade altrui per far brillare la nostra.
Fabio Canessa
COGLI L’ATTIMO
da Viale del tramonto (1950) diretto da Billy Wilder con William Holden, Gloria Swanson