GLI IMMORTALI QUADERNI DEL CARCERE DI GABRIELE DEL GRANDE


Editoriale

Si corre sempre il rischio di sembrare un po’ fasci a condannare volontari e giornalisti operanti in aree di crisi. Il cosa-ci-vanno-a-fare-e-noi-paghiamo non è mai un principio razionale ma piuttosto una bile micragnosa, ignorante e impaurita che li restituisce sempre alla nazione, o possibilmente a regione, provincia, quartiere e mura domestiche. Io credo invece che l’uno coincida con la moltitudine, e che la possibilità di infilare il naso nelle storie lontane e diverse sia uno dei magri risultati dell’internazionalismo e della globalizzazione. Ciò non significa che questa banda di curiosi sia priva di peccato. La passione missionaria è gravida d’interesse materiale e narcisismo, e riesce a sublimarsi solo nella forma, nella decenza dell’esposizione e nella quantità di spazio occupata nella denuncia di quel male che in teoria brucia le budella del martire narratore. Per questo trovo ripugnante il pronome io nel giornalismo, le prose romantiche da operetta e le sentenze cadute dalla poltrona di casa. Chi ha il privilegio di viaggiare e scrivere di tragedie ha il dovere morale di non usare la sofferenza come materia di spettacolo. È pornografico e contrario al principio di diffusione della razionalità appassionata che dovrebbe scorrere come sangue nell’informazione. L’ultimo esempio è quello di Gabriele Del Grande, trattenuto dalle autorità turche dopo la permanenza in Kurdistan. Tralascio le stupidaggini pratiche commesse, tutte indicative del fatto che il ragazzo non è un giornalista, tantomeno un reporter capace di lavorare in contesti di guerra. Trasformare una settimana in cella in un caso nazionale è l’epifania dei mediocri che si figurano intellettuali rivoluzionari e del degrado imperante nelle proporzioni etiche ed estetiche di una cultura, della loro scandalosa e melensa ipocrisia, che si rinnova nel falso rito di compartecipazione interpretato sulla stampa e nel web. Nessun vero giornalista frigna per una settimana di galera in un ambito, quello turco, che per quanto restrittivo rimane istituzionale. Non c’è spazio qui per raccontare i bordelli infami attraversati dai grandi: Terzani, Kapuscinki, Snow, Fisk, quelli che vi pare. Lo raccontavano dieci anni dopo in libri destinati a rimanere nella storia. Pare la stessa intenzione di Del Grande, che interrogato sull’esperienza da un collega, durante la messinscena allestita in aeroporto da quel mezzo cerebro del ministro degli esteri, ha risposto dicendo che “sarà tutto nel prossimo libro”. Non mi si obietti quindi che la sua vicenda è servita a gettare luce sul dramma curdo o sulle nefandezze autoritarie di Erdogan. Curdi e turchi muoiono o vengono torturati e uccisi oggi, adesso. Qui e ovunque, se davvero l’uno coincide almeno un po’ con la moltitudine. Preparatevi dunque all’ennesimo “instant book”, alla rapida digestione ed eiezione editoriale densa d’empatia, agli immortali Quaderni del carcere di Gabriele del Grande.

Luca Foschi
(Inviato di guerra da Aristan\ Aristan’s war correspondent)

Preparatevi dunque all’ennesimo “instant book”, alla rapida digestione ed eiezione editoriale densa d’empatia, agli immortali Quaderni del carcere di Gabriele del Grande.

da Antonio Gramsci – I giorni del carcere (1977) di Lino Del Fra con Riccardo Cucciolla.

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