Ci credereste mai che Luigi Lo Cascio, da vecchio, sarà Silvio Orlando? E, peggio ancora, che Laura Morante da giovane era Alba Rohrwacher? Eppure la scelta dissennata del regista Daniele Luchetti è stata proprio quella di far interpretare i medesimi personaggi a questi attori così differenti nell’aspetto, nella voce, nella gestualità, nel carattere. Non contento di una simile baggianata, Luchetti nella sceneggiatura alterna il passato e il presente, costringendo lo spettatore al confronto continuo tra i quattro attori (ai quali in verità non si può rimproverare niente perché fanno del loro meglio, in una situazione così incresciosa). Il film è intitolato “Lacci” e purtroppo è stato scelto per inaugurare la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. D’Arte. E soprattutto Internazionale (fosse stata solo italiana, vabbè). Implausibile già per l’errore di casting, l’operina, tratta da un romanzo di Domenico Starnone che non abbiamo letto (né, a questo punto, leggeremo), è poi un disastro per come si impegna a snocciolare tutti gli stereotipi del cinema italiano sulla crisi di coppia: Lo Cascio lascia la moglie Rohrwacher e i due figli per scappare con l’amante, scene madri (litigi, berci, zuffe, tentati suicidi) tra i due, tra la moglie e l’amante, tra lui e l’amante, tutto sotto lo sguardo sofferente e smarrito dei bambini, poi dopo molti anni Lo Cascio si pente e torna in famiglia, diventa Orlando che continua a litigare con la ex-Rohrwacher ora Morante, mentre i figli ex-bambini e ora Giovanna Mezzogiorno e Adriano Giannini si lamentano e si ribellano (non riveliamo come, vi capitasse di vederlo) per la vita di merda passata coi genitori. Fine. Tutti i personaggi sono schematici e antipatici, i dialoghi sono banali, prevedibili e ripetitivi (tanto che in un paio di sequenze il regista preferisce silenziarli, inquadrando da lontano e mettendoci sopra la musica), tutto sa di inautentico, fasullo, improbabile come l’alternarsi degli attori. Non c’è un briciolo di verità o naturalezza, solo cascami e cliché, vuota retorica gridata. Per dire poi che cosa? Che i mariti sono vili e opportunisti, le mogli rompicoglioni e vendicative. Se uno scappa con l’amante, sbaglia perché è un egoista fedifrago e i figli soffrono; se invece torna in famiglia sbaglia lo stesso, perché la minestra riscaldata si irrancidisce tra rimpianti e ripicche, e i figli soffrono ancora di più. Per cui non c’è scampo: se la fuga è una mascalzonata da irresponsabili, la famiglia resta una trappola infernale. I lacci del titolo (riferito a un modo di allacciarsi le scarpe che il padre insegna al figlio) sono una maledizione in qualsiasi verso li si leghi. Il problema è che noi umani siamo fatti male, come questo film. Lo diceva un vecchio proverbio toscano: quanto bisogna patì prima di morì. Anche qui a Venezia, se il biglietto da visita della Mostra è un tale infortunio.
dal nostro inviato a Venezia Fabio Canessa
I lacci del titolo (riferito a un modo di allacciarsi le scarpe che il padre insegna al figlio) sono una maledizione in qualsiasi verso li si leghi. Il problema è che noi umani siamo fatti male, come questo film (dal nostro inviato a Venezia Fabio Canessa)