IL GIORNO CHE RAPIRONO ALDO MORO


Editoriale del 15 marzo 2018

Nel 1978 facevo il militare ad Anzio in una caserma dell’esercito. Calma piatta nei dieci mesi che avevo già trascorso là dentro, non c’erano mai stati nemici contro cui combattere, non se ne vedevano all’orizzonte. O perlomeno non erano quelli che da anni insanguinavano le piazze. Aspettando i tartari, il 15 marzo la faccia, il collo e buona parte del mio corpo si erano ricoperti di piccole macchie rossastre. “Rosolia”, disse subito il medico, un rigurgito di fanciullezza. La Sanità Militare però non distingueva tra rosolia e peste bubbonica. Alle 9 di mattina del giorno dopo, il 16 marzo, venivo caricato su un’ambulanza che a sirene spiegate mi avrebbe trasferito all’Ospedale Militare del Celio, a Roma, reparto infettivi. A sessanta chilometri di distanza, alla stessa ora, i brigatisti rossi rapivano Aldo Moro e uccidevano gli uomini della sua scorta. Io e l’autista lo scoprimmo quando il viaggio era appena iniziato: erano scattati i blocchi stradali, gli elicotteri ci ronzavano sulla testa. Difficile giustificare la mia condizione di moribondo: il lettino dell’ambulanza era intatto, mentre io stavo seduto da qualche parte, fresco come una rosa nonostante quei ridicoli puntini sul viso, a leggere e fumare. Ogni posto di blocco, e ne incontrammo tanti, diventò un calvario. Al secondo ebbi almeno il pudore di farmi trovare sotto le coperte. Cosa ho fatto il giorno che hanno rapito Moro e ucciso la sua scorta? L’ho passato a dimostrare che io non c’entravo niente.

Marco Schintu
(Ufficio pesi e misure di Aristan)

Alle 9 di mattina del giorno dopo, il 16 marzo, venivo fatto salire su un’ambulanza che a sirene spiegate mi avrebbe trasferito all’Ospedale Militare del Celio, a Roma. Proprio mentre i brigatisti rossi rapivano Aldo Moro e uccidevano gli uomini della sua scorta (da ” IL GIORNO CHE RAPIRONO ALDO MORO, editoriale di Marco Schintu)

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