Il linguaggio, si sa, disvela il mondo e lo costruisce al tempo stesso. Siamo quello che diciamo e come lo diciamo. Le cose esistono perché diamo loro un nome e le relazioni non sono che articolazioni di significati che fuori dal linguaggio non esistono. In questa intricata rete di senso non mancano gli equivoci, incrostazioni sedimentate negli anni che finiscono per avere l’aspetto borioso dell’autoevidenza ma, che a guardare meglio, sono solo scherzi del linguaggio. E noi ce li teniamo, perché i mondi che disegnano ormai ci appartengono. Mio padre non ha mai letto Wittgenstein, credo. Credo non sappia niente dei giochi linguistici, di ciò che non si può sapere e di cui bisogna dunque tacere, ovvero dei confini della metafisica. Non mi risulta abbia letto Laclau, e del rapporto morboso tra parola e realtà ignora i meccanismi. Mio padre fa l’informatico, ama i boschi e il tennis, e anche i documentari sulla pesca e le gare di motociclismo. Trascorre la vita a incastrare logiche stringenti e trasformarle in programmi, una lotta estenuante con il ragionamento, che spesso si conclude a notte fonda, nel silenzio. Solo in una circostanza non risponde più di sé: quando al telegiornale, in un programma della sera, al bar, alla radio, sente qualcuno pronunciare l’espressione “intelligenza artificiale”. Queste due parole gli sembrano un insulto inaccettabile. “Sono pezzi di ferro! Plastica e ferro! Intelligenza cosa? L’intelligenza è di chi li programma! Non apprendono un bel niente!”. Se poi l’interlocutore è così spregiudicato da affermare che in futuro le macchine sostituiranno l’uomo nelle funzioni del pensiero, che avranno una qualunque forma di autonomia nel ragionamento, è fatta. Per riassumere con uno stile più diretto, per mio padre le macchine non sono in grado di fare una beata minchia, se qualcuno non dice loro esattamente cosa fare e quando e come e secondo quale ordine. E quando sente parlare di evoluzione autonoma si dispera e si chiede da dove sia cominciata questa eresia. É stato John McCarthy nel 1956 a un convegno nel New Hampshire a sparare la storia dell’intelligenza artificiale. E noi da allora la diffondiamo con spensierata deficienza. E la creatività? E l’intuizione? E i nessi non logici tipici dell’intelligenza umana? Noi continuiamo a commuoverci per Pepper, il robotino che si arrabbia, si emoziona e piange (perché così gli è stato detto di fare). Se Pepper fosse intelligente la smetterebbe di frignare a comando in favore di telecamera. Se Pepper ne avesse facoltà, il suo primo gesto spontaneo sarebbe quello di prenderci tutti per il culo.
Eva Garau (Precaria di Aristan)
Noi continuiamo a commuoverci per Pepper, il robotino che si arrabbia, si emoziona e piange (perché così gli è stato detto di fare). Se Pepper fosse intelligente la smetterebbe di frignare a comando in favore di telecamera. Se Pepper ne avesse facoltà, il suo primo gesto spontaneo sarebbe quello di prenderci tutti per il culo. (da INTELLIGENTE A CHI? editoriale di Eva Garau)