A leggere la stampa italiana, plaudente la rinascita del cinema nostrano, sembrava che a Cannes sarebbero stati premiati tutti i nostri film. Non ci credevo e avevo ragione: sono rimasti tutti a mani vuote. Come è possibile, pensavo, che i fratelli Coen diano la Palma a uno dei tre italiani in concorso? Il film migliore è quello di Matteo Garrone, ma un fantasy che vince Cannes sarebbe come Harry Potter che vince il Nobel. Il peggiore è quello di Paolo Sorrentiino, la cui schizofrenia raggiunge l’apice: più il suo talento visivo si scaltrisce nella sapienza dell’impaginazione più emerge la superficialità della sostanza. Dopo aver vinto un Oscar con “La grande bellezza”, rifacendo (male) “La dolce vita”, con “Youth” rifà (ancor peggio) “Otto e mezzo”. Il tema della vecchiaia, incorniciato in un lussuoso hotel sui monti svizzeri, è svolto da una sceneggiatura sentenziosa e frammentaria, senza mai farsi racconto, con cascami felliniani e gratuite bischerate a effetto (Maradona, Hitler, un bonzo che levita). Altro che rinascita del cinema italiano, quello di Sorrentino è un cinema della ri-morte: cadaverico, inerte e inutle, oltre che noioso. Dialoghi che illudono profondità e che rimasticano invece ovvi stereotipi, lo stanco birignao di un metacinema stucchevole ed estenuato, trovate balorde che vorrebbero esaltare una visionarietà d’accatto (il concerto delle campane delle mucche, l’apparizione su un campo delle attrici dei film del passato), la brutta confusione tra sogno e realtà. Uno statico guazzabuglio così pretenzioso potrebbe salvarsi solo con la suggestione di un elevato lirismo o con una potenza espressiva di robusta coerenza stilistica: ma la poesia è soffocata da un ingenuo gigionismo e l’energia visiva è spompata dalla voglia di effettismo studiata a tavolino per epater les bourgeois, stordendoli con la cupa ossessione per la flaccidità delle carni e la decrepitezza delle rughe. Insieme alla madre morente di Moretti, i vecchi di Sorrentino sono il patetico emblema di una cinematografia in camera di rianimazione. Come dice la logora battuta dei medici dei film americani, “la stiamo perdendo”. Salvo l’ottima prova degli attori e l’innegabile perizia con cui lo sguardo della macchina da presa accarezza ogni inquadratura, “Youth” rimane un film presuntuoso e banale, estetizzante e artificioso, che maschera la fragilità del succo con la compiaciuta eleganza della buccia. Cinema dei vecchi e dei morti, pronto per il suicidio come l’Harvey Keitel del film, che accompagna il tramonto dell’Occidente sulle note nobili del concerto finale.
Fabio Canessa
preside del Quijote, Liceo Olistico di Aristan
COGLI L’ATTIMO
da Totò che visse due volte (1998) scritto e diretto da Ciprì e Maresco