Nelle ultime settimane il discorso sui simboli e sul potere evocativo dell’immagine è tornato con prepotenza al centro dell’interesse mediatico. Si discute della legittimità di sbarazzarsi di statue e di conformismo toponomastico, mentre si mescolano confuse e inconciliabili le prospettive: iconoclastia, oblio della storia, revisionismo, derive post colonialiste, trionfo del politically correct. Sul rapporto tra la storia, il suo racconto e l’immagine che in un lampo la raccoglie e la consegna alla memoria collettiva sono state scritte pagine illuminanti. Javer Cercas (Anatomia di un istante, 2010, Gaunda) inchioda la familiarità che un’immagine storica suscita nello spettatore alla diminuita capacità di quell’evento o personaggio di essere reale. Nel ricostruire il golpe del 1981 – i militari che invadono l’emiciclo del Congresso mitra alla mano, il capo del governo Suarez che rimane sullo scranno nonostante il tenente colonnello Tejero gli ordini di buttarsi a terra, i minuti interminabili nei quali si gioca il futuro del paese davanti alle telecamere accese, Cercas ipotizza che proprio la ripetizione nel tempo di quelle immagini ne renda i protagonisti “personaggi” di fiction. Gli spagnoli che ricordano precisamente dove si trovavano la sera del 23 febbraio mentre il golpe veniva trasmesso in diretta e Madrid sembrava sospesa e immobile si sbagliano tutti. L’assalto al parlamento venne sì ripreso mentre accadeva, ma le immagini furono trasmesse solo il pomeriggio successivo, a golpe fallito. Da allora ogni anno, nel giorno dell’anniversario, quelle immagini – ridotte ai 15 secondi più significativi – vengono trasmesse dai telegiornali, rendendo quell’episodio reale “una fanfaronata spagnola appena uscita dal cervello avvelenato di clichè di un mediocre Garcia Berlanga”. Le persone non si trasformano in “personaggi” di fantasia solo per il loro apparire in televisione, ma “è probabile che la televisione contamini di irrealtà qualunque cosa riprenda”. Così il fatto che un evento venga trasmesso in televisione diventa garanzia di realtà (prova che sia accaduto) e al tempo stesso di irrealtà, rendendo la storia “un romanzo collettivo”. La storia repubblicana italiana è ricca di immagini in grado di significare un passaggio epocale, un ideale di massa, un fallimento collettivo, una speranza di rinascita. In ordine inverso: Falcone e Borsellino sorpresi da uno scatto di Tony Gentile a pochi mesi dagli omicidi, Aldo Moro al momento del ritrovamento, i blocchi stradali a Milano durante gli anni di piombo, il buco nero della strage alla banca dell’Agricoltura, la uno bianca. Tutti simboli che ciascun italiano conserva nel bignami di immagini trasmesse ogni anno per gli anniversari. Istanti della cui anatomia, a volerci scavare, poco sappiamo. Si può andare avanti all’infinito nella lista. Inizio io e poi a ciascuno la sua: Tangentopoli. Craxi che si avvicina al microfono e dice: “la maxi tangente è una maxi balla”. Icona ormai cult di realtà e fiction.
Eva Garau (Precaria di Aristan)
il golpe veniva trasmesso in diretta e Madrid sembrava sospesa e immobile (da LA STORIA TRA REALTÀ E FICTION – Editoriale di Eva Garau)