Da quando imbratto carta c’è solo una frase di cui vado fiero, quella che apre la mia tesi di dottorato, nei ringraziamenti: “Quanto segue è un lavoro collettivo, del quale sono il semplice estensore”. Non mi riferivo alle esistenze chiuse dietro le firme di libri e articoli accademici, ma ai guerriglieri, i politici, gli interpreti, i tassisti, i profughi, gli intellettuali, il fruttivendolo che mi ha passato la connessione quando ero sprofondato nel bordello di Sulaymaniyya, i marmisti gemelli di Nablus sbiancati come fantasmi dal polvo che mi hanno messo sul pulmino quando ero perduto. Ho attraversato Libano, Palestina e Kurdistan iracheno affinché tre partiti-milizia nati come reazione all’oppressione raccontassero se stessi. Chi scrive è la corda sottile di uno strumento vasto come l’universo, questo intendo, e volevo che fosse agli atti accademici. Inutile dire che la discussione è stata una pantomima. Nonostante le 370 pagine di tesi nella prosa stitica del modello e della lingua anglosassoni, le 35 pagine di bibliografia, mi è stata immediatamente appioppata l’etichetta di stilista. “Lei scrive in modo poetico”, mi ha fatto l’interlocutrice. Una pagina su 370. Sussumi e sei fottuto. Poi abbiamo litigato per mezzora sugli assunti teorici della ricerca. Il discorso è rinculato infine sul tennis, col pubblico alle spalle che se la spassava. Insomma il solito idiota. Ho capito subito che non avrei mai avuto spazio, né con gli incontinenti né con gli stitici. Ma rivendico l’affermazione, quindi chi di dovere la scolpisca sul marmo quando schiatto. È sempre un lavoro collettivo, soprattutto due metri sotto il rosso dei papaveri.
Luca Foschi
(Inviato di guerra da Aristan\ Aristan’s war correspondent)
Quanto segue è un lavoro collettivo, del quale sono il semplice estensore (da L’IDIOTA – Editoriale di Luca Foschi)