Febbraio 1980. La guerra fredda è sempre meno fredda, anche se i ragazzi che cacceranno nelle tasche dei jeans frammenti di muro e di storia in mondovisione sono ancora bambini. C’è un uomo, si chiama Herb Brooks, campione di hockey su ghiaccio, nella rosa USA per le Olimpiadi del ‘60. Una settimana prima della partenza sostituito. Un ragazzo del Minnesota la cui voglia di rivalsa avrebbe cambiato la storia. Nell’80 è il coach di un gruppo di amatori, studenti del college folli abbastanza da inseguire l’impossibile: battere l’Unione sovietica ai giochi Olimpici. I russi sono soldati dell’armata rossa prestati allo sport. La propaganda passa prepotente anche lungo la lama affilata dei pattini. Gli Stati Uniti, invece, si ripiegano sulla memoria della gloria postbellica, le stazioni di servizio espongono cartelli che recitano: «Niente benzina. Noleggiate una bici», il malcontento riempie il vuoto lasciato dai movimenti per i diritti civili. Carter, in TV, pare pallido e frastornato. L’ambasciata degli Stati Uniti a Teheran presa d’assalto a incarnare l’impotenza del gigante ferito. Sono solo studenti universitari gli americani, i russi monaci dalla fede e dai corpi incrollabili. Brooks fa il miracolo. I ragazzetti del college scrivono la storia, l’Impero si solleva nel delirio popolare. Un miracolo americano da copione, tanto che i diritti li acquista la Disney, per una brodaglia indigeribile a base di stereotipi. Restano le interviste ai protagonisti di allora. Il viso rugoso di un ragazzo del team ‘80 che dice: «Rattrista pensare che adesso siamo noi i russi». E non parla di hockey. Parla dell’arroganza dei dominatori, della gloria senza dubbio, del potere senza attenuanti. «Se avessimo perso», dice Brooks, e non finisce la frase. Se avessero perso non sarebbe stato un film americano. Se avessero perso sarebbe stato un film polacco. Ma è un film americano, questo. E gli americani vincono sempre. E per questo tutti li amiamo. E per questo tutti li detestiamo.
Eva Garau (Precaria di Aristan)
da Miracle (2004) diretto da Gavin O’Connor. Con Kurt Russel