Avevamo appena commemorato la morte del nostro cinema che arriva a smentirci “Il primo re” dell’esordiente Matteo Rovere. La storia di Romolo e Remo in un film parlato in latino (con i sottotitoli) assolutamente anomalo nel panorama italiano e non solo. Gli si potrebbero accostare solo “La guerra del fuoco” di Jean-Jacques Annaud e “Apocalypto” di Mel Gibson, per il tentativo di mettere in scena un mondo primitivo con opere quasi mute, apparentemente semplici e invece di estrema complessità, con il rischio di naufragare nella noia o, peggio, nel ridicolo. Se la scommessa è vinta si deve soprattutto alla solidità tecnica, per cui non si sa se elogiare di più la splendida fotografia di Ciprì, i costumi suggestivi della Taviani, la recitazione dell’ottimo Borghi o il nerbo della regia, la musica evocativa o il ritmo del montaggio. Sono apprezzabili anche la cura storica degli ambienti e quella filologica della lingua, con tanto di fonti da Tucidide e Plutarco. Ma la carta vincente, nel contesto di un cinema di commediole sciape con Fabio De Luigi alle prese con i suoceri o i bambini, è il brutale impatto visivo di un mondo altro, che però è quello dal quale siamo stati originati, non la solita distopia. Non la paura del futuro, ma la paura del passato. Un passato fatto di violenza, raccontato da un cinema che spiattella in faccia allo spettatore un’estetica e un’etica della sofferenza, bestia nera della nostra società floscia. Per dire come le nostre radici sono cementate dalla violenza, dal coraggio, dal dolore e dalla morte, nutrite dal sangue di un fratricidio forse causato dal primo conflitto tra pubblico e privato: ubbidire alla legge divina o favorire i sentimenti familiari? Al posto delle faccette di Toni Servillo o Sergio Castellitto ci sono sguardi di spaventosa sofferenza di volti sconosciuti, scelti per sembrare quelli di tremila anni fa. Così scopriamo che “Madmax” e “Il trono di spade” ce l’avevamo già in casa nostra da sempre, che la campagna laziale sulle sponde del Tevere è suggestiva come la Nuova Zelanda degli hobbit, che la storia di Tito Livio è appassionante quanto il fantasy di Tolkien, che Romolo e Remo sono più splatter di Tarantino. “Il primo re” non è il capolavoro esaltato da qualche critico più stufo di noi delle boiate di befane, moschettieri e gorilla, ma è un fulmine di grande epica nel cielo plumbeo del cinema italiano.
Fabio Canessa (Preside del Liceo Olistico Quijote di Aristan)
Avevamo appena commemorato la morte del nostro cinema che arriva a smentirci “Il primo re” dell’esordiente Matteo Rovere (da PAURA DEL PASSATO – Editoriale di Fabio Canessa)