Il Cantico dei Cantici, la “Canzonissima”, al festival delle “canzoni”: una specie di test di Rorshach: dichiarazioni di scomunica o di santificazione, in nome di ortodossie teologiche o umanitarie. Per me, il primo passo è soltanto di metodo “letterario”, per dire che se un autore in una poesia o in qualsiasi testo usa una metafora, significa che vuole dire le cose con quegli effetti di senso resi possibili da quella metafora, e non da un’altra. Dire “il cielo sta piangendo”, spiega “Neruda” al “postino” nel film con Troisi, certo dice che sta piovendo, ma dice anche “molto di più”. Questo “molto di più” e quello che si è perso nella “ricostruzione” del testo del Cantico presentata al festival, dove al posto delle metafore si è sostituito “il disegnino” pedante di un epigrafista. Se alla nota al pianoforte silenziate tutti gli armonici che genera, vi resta solo la freddezza di un suono innaturale, alla faccia della “natura” di cui vi riempite la bocca.
Perché il primo responsabile di quello che è successo a Benigni èun commento al libro del Canticopubblicato nel 1992 (ventotto anni fa!) da un epigrafista, Giovanni Garbini (citato del resto a inizio performance). Benigni fece una prima lettura del Cantico nel 2006, ma di fronte a un pubblico molto cattolico disse esattamente (e in modo abbastanza opportunistico), ciò che oggi gli rimproverano di aver in pratica negato o messo le basi per negare (forse in modo altrettanto opportunistico… visto che bisogna in qualche modo tener conto dell’uditorio).Disse cioè che il Cantico non solo è «il ritratto di Dio con Israele», non solo è «l’amore di Dio e di Cristo per la Chiesa», ma anche è la metafora più bella «dell’amore di Gesù per l’umanità», pur dicendo che tutto ciò era un’ultima tappa “sapienziale” di un testo di partenza a sensi stratificati. Tutti ad applaudire in platea, compresi i monsignori debitamente citati e sorridenti a pieno schermo: quattordici anni fa. Poi, tra il 2006 e il 2020, Benigni trova evidentemente il tempo e il modo di eliminare, nuova shoah di parole, tutte le metafore. Il metodo “scientifico” del rinnovato sterminio è proprio quello dell’epigrafista, che, scalpello alla mano, nuovo Michelangelo, “sveste” i termini univoci nascosti nei marmi ancora polimorfidelle metafore, in un atto invertito rispetto a quello che la pittura del medesimo Michelangelo subì con le “velature” dei nudi nella Cappella Sistina.
“Coperture” e “Svelamenti” che in storia dell’arte e in storia della letteratura sono bollati come falsi, ma non nella storia di chi sottopone i testi alle leggi opportuniste dello spettacolo, in questo caso fidandosi di chi ha studiato molto, ma confondendo lettura poetica e decifrazione epigrafica.
Che dire, Signore:
«Perdona loro, perché non sanno quello che fanno»?
Non sanno o sanno troppo?
Perché, a distanza di secoli,
è ancora possibile uccidere la parola
che significa “molto di più”
di quello che ideologie religiose o profane
vorrebbero controllare.
Antonio Pinna
Salmista ad Aristan
[esempio concreto a un secondo salmo “dopo festival”]
Dire “il cielo sta piangendo”, spiega “Neruda” al “postino” nel film con Troisi, certo dice che sta piovendo, ma dice anche “molto di più”. Questo “molto di più” e quello che si è perso nella “ricostruzione” del testo del Cantico presentata al festival, dove al posto delle metafore si è sostituito “il disegnino” pedante di un epigrafista (da SALMO 228 A METAPHOR IS A METAPHOR IS A METAPHOR (1) – Editoriale di Antonio Pinna)