Il liceale Mario Lavagetto, pieno “di febbrili aspettative”, andò all’Università ad ascoltare una lezione di Giuseppe Ungaretti su Giacomo Leopardi. Il vecchio poeta cominciò a leggere (“meravigliosamente”) “Alla luna”. Poi, dopo un lungo carismatico silenzio, commentò: “E’ meraviglioso…non c’è niente, proprio niente da dire”. E rilesse più volte quel testo alla sconcertata platea, fino alla fine dell’ora. Il giovane Lavagetto ne uscì delusissimo. Proprio da questo aneddoto autobiografico parte il suo saggio “Eutanasia della critica”, un denso e intelligente libriccino edito da Einaudi sul ruolo della critica e sull’utilità di un mestiere che, secondo il George Steiner di “Vere presenze”, non sarebbe altro che un’infinita attività di chiacchiere, col rischio di rendere irraggiungibile l’approccio diretto alla letteratura. “Una coltre di nebbia tanto spessa da risultare soffocante”, un commento onanista e autoreferenziale che prolifera su se stesso, sommergendo Dante e Shakespeare, Kafka e Tolstoj, Balzac e Goethe. Invece, secondo Lavagetto, adesso la tendenza si è invertita. Le grandi tirature dei volumi allegati in edicola a quotidiani e settimanali hanno riempito di classici le case degli italiani, mentre la crisi delle recensioni e della saggistica sembra irreversibile. Secondo lui, non c’è da rallegrarsene: il fenomeno è più commerciale che culturale; l’editoria, dopo l’euforia, ne uscirà impoverita. Come i lettori, che, privandosi della preziosa guida della critica, perderanno il senso della profonda ambiguità della letteratura, elemento che ne costituisce il fascino più sottile. L’ermeneutica infatti, anziché uccidere il testo, lo arricchisce. Sulla scorta degli amati Marcel Proust e Henry James, Lavagetto sintetizza da par suo la storia della critica da Croce al postmoderno, passando per la moda dello strutturalismo (del quale onora il merito innovativo di porre il testo al centro dell’attenzione, ma ne bacchetta la pretesa scientificità e la forzatura di alcuni tic, come l’abusato slogan dell’“autonomia del significante”). Per dimostrare come la fine della critica porterebbe inevitabilmente con sé la fine della letteratura, spogliando il piacere della lettura dall’articolata complessità della sua natura pluridimensionale. E ricorda che quando gli chiesero se si potesse insegnare la letteratura, Roland Barthes rispose: “Non si può insegnare niente altro”.
Fabio Canessa
(preside del liceo olistico “Quijote”)
Il vecchio poeta cominciò a leggere (“meravigliosamente”) “Alla luna”. Poi, dopo un lungo carismatico silenzio, commentò: “E’ meraviglioso…non c’è niente, proprio niente da dire” (da NON SI PUO’ INSEGNARE NIENT’ALTRO CHE LA LETTERATURA (SULLA QUALE NON C’E’ NIENTE DA DIRE, editoriale di Fabio Canessa)
La poesia secondo Giuseppe Ungaretti – da un’intervista del 1961