La vigilia di Ferragosto, all’isola d’Elba, mi è venuto incontro sorridente un signore con barba e capelli bianchi, dicendomi: “L’ho vista in televisione con Arbore. Complimenti, lei è un musicista bravissimo!”. Gli ho dato la mano e l’ho ringraziato, guardandomi bene dall’obiettare che non sono affatto un musicista, né bravo né scarso, e che in quel programma parlo di cinema. Il bello è che, anziché irritarmi o lasciarmi indifferente, il complimento fasullo mi ha fatto un gran piacere. Ancor più che se mi avesse detto che ero un bravissimo critico cinematografico. Eppure l’episodio poteva prestarsi a molte interessanti riflessioni: sul potere che ha la televisione di memorizzare un volto ma anche di favorire una percezione confusa, per cui tutti ti vedono ammirati ma non ascoltano quello che dici né fanno caso a quello che fai o che sei; sui meccanismi di sovrapposizione delle informazioni, così se appari in un programma musicale ti ricordano come musicista anche se passi dallo studio per spazzare o dare il cencio per terra; sulla verità della celeberrima affermazione di Marshall McLuhan secondo la quale “il mezzo è il messaggio”, infatti la tua presenza sullo schermo rimane impressa indelebile mentre le tue parole si disperdono appena pronunciate; sulla gratificazione umanissima di presentarti a uno che hai visto in televisione, perché è un po’ alienante, alla lunga, che tu veda e riconosca Pippo Baudo, Bruno Vespa, Piero Angela e Fiorello ma loro invece non vedono e non riconoscono te (quando il mondo era a misura d’uomo, senza protesi tecnologiche, ognuno conosceva solo quelli che lo conoscevano e con i quali aveva uno scambio alla pari di visione e ascolto reciproci: al bar, per strada, sul lavoro, in famiglia). Invece io, nella mia scemenza, ero compiaciuto di essere stato apprezzato per quello che non sono. E’ forse il segnale allarmante di un’insoddisfazione recondita, annidata a nostra insaputa anche nell’animo dei più insospettabili: vorremmo essere comunque qualcun altro e fare qualcos’altro. A me in effetti piacerebbe molto essere un bravo musicista e mi dà una sensazione inebriante che ci sia qualcuno che mi creda tale. Oppure, a voler essere magnanimi, è il sintomo salutare di una voglia di vivere molteplici vite, di voler fare tutti i mestieri, di non adeguarsi stancamente a una forma che ci costringe a un ruolo fisso, cancellando tutte le altre possibilità. Insomma, sarà una sindrome da Fracchia, spia di una sorda frustrazione, oppure una fertile ribellione alle maschere pirandelliane o magari una vitale conferma dell’inquietudine di Kierkegaard, che vede l’uomo paralizzato di fronte a ogni scelta, perché sposare una donna implica lo struggimento di perdere tutte le altre?
Fabio Canessa
COGLI L’ATTIMO
da Le mani sulla città (1963) diretto da Francesco Rosi