Forse è per via di quel quaderno sottile dalla copertina nera, pagine fitte di date e spettacoli, tutta la programmazione cinematografia annotata con calligrafia geometrica, l’anno il 1968. Non so il nome del compilatore compulsivo, ma nel tempo l’ho attribuito a un prozio dal passato americano. Senza giri di parole, quel quaderno l’ho rubato un’estate trascorsa a casa dei nonni in paese, a 12 anni. Stava in mezzo ai libri di testo, nella grande libreria all’ultimo piano, tra i volumi di scienze e la collezione di Tex. Da quando la casa si è svuotata di riti e voci la considero la mia eredità. O forse il motivo è quella frase di Vittorio Gassman, che diceva più o meno così: «Il teatro è una zona franca della vita, lì si è immortali». Parlava degli attori, credo, ma a me sembrava che lo stesso si potesse dire di me, seduta sulla poltroncina rossa a cinque anni, poi a sedici, poi a venticinque, divisa dalla grazia del tempo sospeso solo dal sipario. Per almeno due motivi, quindi, mi sono risposta, oggi che un teatro di una capitale di mare di un regno minore è stato demolito e ne restano solo macerie e un buco nero tra palazzi anonimi, per almeno due motivi quando un teatro o un cinema chiudono per sempre i battenti è una ferita collettiva e allo stesso tempo un dolore personale. Solo non credevo che un edificio degli anni Sessanta, esteticamente da perdonare più che da ammirare, avveniristico nei suoi dettagli tecnici e nazionalpopolare nell’affresco all’ingresso, non credevo che anche un relitto con le saracinesche ormai abbassate da un decennio almeno mi avrebbe fatto lo stesso effetto. Il Teatro Alfieri di Cagliari è la ragione per la quale negli anni ho sofferto la fine di altri teatri. Sono le rappresentazioni per ragazzi, con gli alberi di cartone e le musiche che riverberano nel petto, il sorriso di mia madre quando si accendono le luci, sono le scarpe di vernice e la mano della compagna di giochi alla prima nota del recital, sono le scolaresche irretite da Medea che attraversa sconvolta le prime file; è l’amore improvviso per Pirandello quando ancora non hai capito quasi niente, le proiezioni estive nel cortile interno che si allungano sui muri dei palazzi intorno, la grande prosa che sfiora la provincia, l’attesa in fila per i biglietti, il concerto di Bollani e il ragazzo che ti siede accanto, le chiacchiere e le prime sigarette sul marciapiede, alla fine dello spettacolo. Ci sono altri teatri, ci sono altri cinema. Ma in nessuno mai saremo le stesse persone che siamo state, in un tempo che era già finito, ma che potevamo ancora immaginare di riprenderci, un giorno, oltre le saracinesche immobili.
Eva Garau (Precaria di Aristan)
«Il teatro è una zona franca della vita, lì si è immortali»
Da TITOLI DI CODA – Editoriale di Eva Garau (Precaria di Aristan)