UN VENERDÌ QUALUNQUE DI RABBIA

Di Tel Aviv dall’oblò mi ha colpito la grande pozza d’acqua dove quattro formicuzze se la spassavano sfrecciando sugli sci intorno a un circuito, e il sole, e l’ordine delle macchine sulle autostrade e i campi fertili e ordinati. Niente a che vedere con Gerusalemme e la Porta di Damasco dove i soldati estirpavano una manifestazione al femminile contro il regalino di zio Trump a Netanyahu. Fa ancora più effetto vedere quei cyborg tutti pavesati se afferrano e spintonano non i pischelli politicamente infoiati ma le signorine solitamente così dimesse e le madri. Al check point di Qalandia sono sceso dal bus e oberatissimo dai bagagli ho attraversato i tornelli da galera che segnano il passaggio da Gerusalemme occupata e Ramallah. Al confine i soldati inseguivano i bambini armati di fionda per fermarsi poi sui tetti e gli scheletri delle case mai finite, l’imbrunire scendeva copioso e i contendenti non potevano più vedersi. Gli israeliani ne avevano accoppato quattro in giornata. La rabbia giovane dei corpi si sarebbe riversata nella notte piena della città, duecento giovani o giù di lì che giravano per le strade antiche e cantavano o picchiavano sui vetri delle sale da tè eleganti per scrostare chi nonostante tutto se la gode. Sarebbero poi stati dispersi dalla polizia locale e io con loro, sfiancato dal viaggio come tutte le volte che si tocca un’arteria della cronaca e che si sente il sangue decidere fra sottomissione e rivolta.

Luca Foschi
(Inviato di guerra da Aristan\ Aristan’s war correspondent)

Fa ancora più effetto vedere quei cyborg tutti pavesati se afferrano e spintonano non i pischelli politicamente infoiati ma le signorine solitamente così dimesse e le madri. (da UN VENERDÌ QUALUNQUE DI RABBIA, editoriale di Luca Foschi)

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