Uno degli effetti collaterali della pandemia è l’impossibilità di viaggiare. Ci immergiamo perciò nelle pagine del diario di viaggio di un gigante della letteratura francese come Théophile Gautier, con l’intenzione di usarlo come surrogato cartaceo di lusso. Eppure, prendendo l’unica traduzione italiana del “Viaggio in Italia” ne usciamo sorpresi e divertiti, perché non è come ce l’aspettavamo. Gautier si rivela un viaggiatore di malumore, irritato e distratto, disposto più alla critica che alla commozione. In lui si esplicita quello che Marcel Proust ha espresso nella Recherche, distinguendo il “nome del paese”, con le allettanti aspettative che la letteratura ha provocato nei lettori ammaliati dalle atmosfere vissute sulla pagine, e il “paese”, la realtà che si para di fronte ai nostri occhi quando visitiamo i luoghi immaginati sui libri. Che implacabilmente deludono una coscienza imbevuta di fiction e che non sa ritrovare nel mondo vero il genius loci corteggiato nella mente. Così Gautier, inviato dal giornale “El Pays” nel 1851 a vedere e raccontare le meraviglie d’Italia, è così illuso dalla fiction letteraria da far trasparire a ogni pagina l’irritazione per quanto osserva. A Ferrara non nota “niente di caratteristico da segnalare; l’uniformità dominava ovunque”. Gli Appennini, letti in innumerevoli descrizioni, da Orazio in poi, non lo impressionano, perché “è difficile non aver già l’idea di un Appennino bell’e fatto che la vista del vero non contrasti e non deformi in modo singolare”. L’ingresso a Firenze coincide con il passaggio di un funerale, poco incoraggiante benvenuto, e infatti “l’aspetto generale di Firenze, contrariamente all’idea che uno se ne può fare, è triste”. Gautier si scioglie solo di fronte alla bellezza di piazza della Signoria, descritta dettagliatamente in ogni singolo monumento: il preferito è, a sorpresa, “Ercole e Caco” di Baccio Bandinelli, mentre il “troppo lodato” David di Michelangelo, “un po’ pesante e banale”, ingigantisce a dismisura “un eroe biblico di statura notoriamente piccola” (ragionamento, a nostro modesto parere, bischero assai). Il diario tende alla digressione, confrontando spesso i volti dei passanti con i ritratti di Raffaello o Zurbaràn. Gautier si rifiuta di visitare la casa di Ariosto a Ferrara perché il poeta va cercato piuttosto nei versi del Furioso, guarda la torre Garisenda di Bologna con l’eco delle terzine dantesche, non sa fare a meno di istituire continui paragoni, anche se riconosce che “la mania dei paragoni è un difetto della mente”. L’ideale sognato, troppo nutrito di riferimenti letterari e artistici, non collima mai con l’esperienza. E con un guizzo balzano, secondo il quale “si potrebbe giudicare o meno il progresso della civiltà dal numero dei barbieri di una città”, incorona Bologna, vittoriosa su Londra e Parigi, perché può gloriarsi di venti barbieri in una sola via. Mah! Chiudendo il libro, viene da pensare che il lockdown se lo sarebbe meritato più lui di noi.
Fabio Canessa (Preside del Liceo Olistico Quijote di Aristan)
“Così Gautier, inviato dal giornale “El Pays” nel 1851 a vedere e raccontare le meraviglie d’Italia, è così illuso dalla fiction letteraria da far trasparire a ogni pagina l’irritazione per quanto osserva.”
Da UN VIAGGIATORE DA ZONA ROSSA – Editoriale di Fabio Canessa (Preside del Liceo Olistico Quijote di Aristan)