Non aveva torto Adriano Celentano quando, dal palco di Sanremo, rimproverava i giornali cattolici e le omelie dei preti di occuparsi di politica anziché del Paradiso. E’ vero che c’è chi non ci crede, ma i giornali cattolici e i preti dovrebbero crederci. Senz’altro ci crede il Papa, che ne ha parlato a Milano, rispondendo a Cat Tien, una bambina di sette anni di origine vietnamita, che gli ha chiesto di raccontare «qualcosa della tua famiglia e di quando eri piccolo come me». Benedetto XVI le ha risposto ricordando come centrale per la sua famiglia fosse la domenica. «A casa la musica era importante, – ha aggiunto – mio fratello è diventato un grande musicista, il papà suonava la cetra e cantava, erano momenti indimenticabili. Eravamo vicini a un bosco e facevamo tante passeggiate. Eravamo felici, anche se erano tempi difficili prima per la dittatura e poi per la guerra». (E a me è venuta in mente una sera in cui Renzo Arbore mi confidò di essere rimasto colpito dalle parole che suo padre gli disse prima di morire: “Eravamo felici e non ce ne eravamo accorti”). «Penso che il Paradiso debba essere come ai tempi della mia gioventù – ha concluso Ratzinger – e penso di andare a casa andando verso l’altra parte del mondo». Se un discorso simile l’avessero pronunciato Vito Mancuso o Saviano, si sarebbero tutti spellati le mani dagli applausi. Ma del Papa, essendo convinto sostenitore della Verità, è inevitabile che diffidino gli appassionati del dubbio, i corteggiatori dell’eresia, tolleranti con tutti tranne con coloro che, anziché fare domande, danno risposte. Eppure, dice Chesterton, quando da bambino facevo domande era perché desideravo una risposta. Poco male. L’idea poetica che il Papa ha del Paradiso è in perfetta consonanza non solo con le pieghe più intime dell’animo di tutti, ma con i capolavori artistici del Novecento. E’ la versione religiosa della laica estasi metacronica di Marcel Proust, quel piacere inafferrabile che invade il protagonista adulto della Recherche quando intinge nel tè un biscotto, la celebre madeleine, che non aveva più mangiato dal tempo dell’infanzia: il sapore noto ma dimenticato lo sorprende proiettandolo all’indietro, riconducendolo a casa (per usare le parole di Ratzinger), cioè annullando magicamente, per pochi secondi, tutto il tempo trascorso da allora. Un’illusione che, per qualche istante, ha vinto la morte e lo ha riportato al paradiso della gioventù. E’ anche IL POSTO DELLE FRAGOLE di Ingmar Bergman, quello nel quale torna il vecchio medico Isaac per rivivere la propria infanzia vissuta in quel luogo: con una geniale invenzione cinematografica, l’anziano professore si aggira, con il corpo di ottantenne, in mezzo alla realtà del suo passato, osservando quel mondo perduto (lo zio sordo, le gemelle antipatiche, i fratelli e la fidanzata) rimasto intatto nel ricordo. E nella splendida sequenza finale, si addormenta rivedendo la madre, vestita di foggia antica, e il padre che lo saluta da lontano, mentre pesca in riva al lago. Immortalati in un eterno presente, prove evidenti che la beatitudine del Paradiso consiste nel tornare a casa.
Fabio Canessa
COGLI L’ATTIMO
da Il posto delle fragole (1957) di Ingmar Bergman