DI VIRALE C’È ANCHE IL RAZZISMO


Editoriale del 26 aprile 2020

 

All’inizio erano attacchi in ordine sparso a chi avesse sembianze asiatiche. Erano i primi giorni di allarme per il virus in Italia e ai TG erano tutte proiezioni e domande. I pestaggi in autobus, gli insulti razzisti, le saracinesche degli esercizi commerciali di cittadini di origine cinese tirate giù sino a data indefinita proliferavano sottotraccia. Mica solo da noi. In Cina, rivela il Guardian rompendo il silenzio di Pechino, dove il fatto passa sotto silenzio, la discriminazione è ormai sistema. E chi sono i cinesi dei cinesi? Gli untori da isolare e punire per essersi fatti veicolo di trasmissione? Gli africani. In molte province, per esempio in quella del Guangdong, nel distretto di Yuexiu, è ormai loro apertamente vietato l’ingresso in alcuni locali pubblici (McDonalds, tra gli altri) e molti vengono sfrattati con effetto immediato dai padroni di casa, mentre nella zone più densamente popolate si fa largo lo slogan “Questa è la Cina! Non la Nigeria!”. Il coronavirus non ha fatto altro che rendere esplicita e visibile quella forma di razzismo da secoli presente nella società cinese. Lo stesso vale per noi. La diffidenza, quando non la aperta discriminazione, del diverso – trasfigurato nel capro espiatorio – è un meccanismo ricorrente che si acutizza in tempo di crisi di natura sociale, politica, economica. Un’emergenza sanitaria è il perfetto cavallo di Troia per una xenofobia che da sempre – e sempre più intensamente – lega la presenza straniera, soprattutto quella dei migranti extraeuropei, al diffondersi della malattia. Tutto ciò che contagia e contamina è attribuito allo straniero. In Italia, ma anche altrove, da anni l’arrivo dei migranti è associato al diffondersi di malattie ormai debellate o sconosciute. Basta farsi un giro tra i titoli dei quotidiani, inclusi quelli mainstream. Più di recente, anche la malattia mentale è entrata nel novero di quegli agenti patogeni che vengono (intenzionalmente, secondo i peggiori complottisti) inoculati in società altrimenti sane. Il risultato è che a furia di sentir parlare di “comprensibile preoccupazione” ci convinciamo che davvero le nostre ansie immotivate possano essere sdoganate senza passare per una decostruzione semplice e logica, che le esporrebbe alla loro irrazionalità. Abbiamo ormai accettato che il presagio o la paura continuo quanto la scienza, i numeri e l’evidenza. Nell’era della politica dei sentimenti, una scorciatoia si trova sempre. Così se non si riscontra una maggiore presenza del virus tra gli stranieri di origine africana, confezionare un’altra teoria campata in aria è un gioco: se non si ammalano sicuramente c’è dietro qualcosa. Perché stupirci allora, se il presidente di una superpotenza mondiale propone di iniettarci in vena un po’ di disinfettante? Che poi stava scherzando, dice, si capiva, dai. 

 

Eva Garau (Precaria di Aristan)

La diffidenza, quando non la aperta discriminazione, del diverso – trasfigurato nel capro espiatorio – è un meccanismo ricorrente che si acutizza in tempo di crisi di natura sociale, politica, economica (da DI VIRALE C’È ANCHE IL RAZZISMO – Editoriale di Eva Garau)

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