Aristaniani di terra, di cielo e di mare: il titolo è completamente arbitrario. Spesso lo sport terrorizza i ruminatori di pensiero come, che so, un rutto diaframmatico in presenza della regina d’Inghilterra. Pertanto è necessario l’inganno per gabbare l’inganno e tornare al valore assoluto del corpo. Perché discutere il tennis del glorioso Dustin Brown equivale almeno ad affrontare le ambiguità del noumeno kantiano. O il mistero profondo del sarchiapone. O se la storia procede verso un fine o è ciclo o è bugia sterminata. Come in Whitman, c’è un cosmo, le parti sono nel tutto e il tutto nelle parti. Dustin Brown “Dreddy” (n° 85 ATP) nasce nel 1984 a Celle, in Germania, da una famiglia d’immigrati giamaicani. Il tennis è uno sport per fighetti danarosi e papà Brown di piccioli ne ha solo per un camper. Lo regala a Dustin e lui fra il 2004 e il 2007 ci gira l’Europa partecipando ai tornei giovanili e ai primi ATP. Guida, gioca, rimorchia un’infinità di sgnacche con il suo corpo flessuoso i denti bianchi e lo smalto rastafari del moderno Chisciotte. Nella cavalleria errante plasma lo stile di gioco e l’anima. Dotato di un servizio e di un dritto poderosi si abbandona spesso ai lirismi estetici dei colpi impossibili, esultando per le folle borghesi dei prediletti campi d’erba come uno scugnizzo sfuggito alle grinfie del potere costituito. Perché la guerra al controllo è il paradigma fondamentale del suo essere. Per Dustin il tennis non è una snervante partita a scacchi in movimento, ma un muro di periferia da affrescare con lo spray prima che vengano gli sbirri. Ogni punto è definitivo. Non esistono tattica, strategia, i fantasmi shakespeariani della decisione. Vive in un perenne carpe diem, nel qui e nell’adesso. L’unico nemico è il suo ego d’artista smisurato, anarchico e fresco, la sua volontà di potenza consacrata allo schianto. Gioca un match point come se fosse un qualunquissimo quindici a metà set. Sfida Nadal o Djokovic come se fossero degli sbarbatelli oratoriali, e questi come se fossero maghi malvagi nella sala degli specchi infiniti. Alcune fra le sue esecuzioni rimangono nella storia del tennis come concetto limite, imprese di una divinità enorme e beffarda. In breve, è uguale a se stesso e se ne fotte, è un bambino immerso nel suo gioco, la nuvola, il falco alto levato. Naturalmente il numero delle sconfitte è esorbitante. Dostoevskij scordò un gerundio: la bellezza salverà il mondo, perdendo. Perché il genio e la libertà servono ad abbandonare il tempo, non a conquistarlo. Per tale ragione ho deciso di dare a questo editoriale il titolo “Il primo bacio, ovvero i bolscevichi di oggi bevono il ketchup non il sangue dei bambini”.
Luca Foschi
(Inviato di guerra da Aristan\ Aristan’s war correspondent)
COGLI L’ATTIMO
2014 Halle Rafael Nadal vs Dustin Brown Highlights