LA DISCIPLINA DELLA GUERRA


Editoriale del 14 giugno 2105

Si sono incontrati senza gioia, per caso definitivo, in una manciata d’ore fra il 1 e il 2 luglio 1961. Un aneurisma spegneva Louis Ferdinand Cèline nella stamberga di Meudon, l’esilio dove piansero solo cani, gatti, un pappagallo sboccato e una ballerina silenziosa. Poche ore dopo, nel suo buen retiro di Ketchum, Idaho, Ernest Hemingway scendeva gli scalini della cantina, sfilava un fucile dalla vetrina e si faceva saltare il testone. “Click! Bang! Uno spruzzo di budelli sul muro! Una cappella sistina di gelatine! Budini!” avrebbe scritto Cèline. O qualcosa di affine. “Entrai nella stanza e restai con lui finchè morì. Non riprese mai conoscenza e non impiegò molto a morire. Dopo un po’ me ne andai e tornai a piedi a casa nella pioggia”, avrebbe forse replicato il vecchio spaccone. Scrivevano entrambi da un luogo remoto e irraggiungibile il genio dell’eccesso e il genio della parsimonia nelle parole. La lingua si capovolgeva necessariamente nell’esistenza: minimalista, schivo, assediato Cèline; smargiasso, superomistico, glorioso nella costruzione della gloria Hemingway. Entrambi avevano conosciuto volontari l’ecatombe della Prima guerra mondiale, appena ventenni. Nella seconda il figlio delle periferie si sarebbe macchiato di antisemitismo, lo yankee avrebbe giocato a tiro a segno con i crucchi. La stupida ciurma della storia avrebbe emesso l’ ovvia sentenza. Cèline sprofondò nella miseria e nell’anonimato. Hemingway rispose “Troppo tardi” quando gli annunciarono il Nobel. Era impegnato coi marlin e i daiquiri di Cuba. Non ritirò mai il premio. Rimasero sempre corrispondenti di guerra. Morirono come tali, avvolti dalla demenza e dalla solitudine. Quella notte se ne andava il ‘900. Era stato descritto nelle estremità che si toccano. Nessuno è stato ancora capace di giocare con la stessa tragica grazia.

Luca Foschi
(Inviato di guerra da Aristan\ Aristan’s war correspondent)

COGLI L’ATTIMO

 

dal documentario: Louis-Ferdinand Céline a Meudon (1959)

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