Più di dieci anni fa, il thriller di David Fincher “Zodiac” mi entusiasmò per le atmosfere dark in cui ambientava la ricostruzione del caso irrisolto di cronaca reale di un serial killer nella San Francisco anni Settanta. Un giallo alla rovescia, dove gli indizi e le prove, anziché formare il puzzle che ricompone la verità, si contraddicono fra loro, i sospetti rimangono tali e l’indagine diventa un’ossessione febbricitante che naufraga nell’incertezza. Un film formidabile, di solida struttura, per smascherare l’impossibilità della giustizia e la nostra inadeguatezza a raccapezzarci nei complicati meccanismi del mondo. Le sequenze degli omicidi erano da antologia del brivido e “Zodiac” si collocò nel mio immaginario tra James Ellroy e X-Files, tra Hitchcock e Lynch, nel mito affascinante dell’alterità metropolitana statunitense. Grattacieli, finestre illuminate, vicoli bui, pozzanghere che riflettono tipacci col revolver e la motosega. Lontano anni luce dai delitti nostrani del mostro di Firenze, dalla macelleria morbosa delle coppiette, spiate da quelli squallidi guardoni dei compagni di merende: il Lotti Katanga e il Pietro Pacciani mostro emerito per quanto emerse dei suoi rapporti con le figlie e la moglie Angiolina. Un male nostrum, che affondava le radici nei campi di una Toscana rurale di primitività ancestrale, all’insegna di soprusi, violenze, incesti e seghe tristissime. Che distanza separava le miserie tra le scarne vie assolate di Scandicci dai crimini glamour venati di horror delle strade up and down di San Francisco! Oggi leggo che ci sarebbero le prove che il misterioso Zodiac americano, mai trovato, fosse anche il mostro di Firenze, in un corto circuito di fulminante epifania tra Usa e Mercatale, tra il coltellaccio nelle mani di Zodiac e lo stuzzicadenti tra le labbra di Pacciani, tra l’inglese slang seccamente pronunciato da Jake Gyllenhaal e il rozzo fiorentino biascicato stentatamente dal postino Mario Vanni. Come dire che il male è il medesimo e il sangue pure, poco importa se viene dal drugstore o dalla bistecca alla fiorentina, se si condisce con il ketchup o la pappa al pomodoro, se si confeziona col ritmo serrato del montaggio di “Seven” o con la turpitudine campagnola di vicini di casa dalla perversione casereccia. A chiudere il cerchio arriva “Il signor Diavolo”, il nuovo strepitoso e terribile romanzo gotico di Pupi Avati (edito da Guanda, ve lo consigliamo a bestia), che innesca nella campagna veneta degli anni Cinquanta vicende horror da sgomento (un’ostia della prima comunione finisce calpestata e un’altra addirittura inghiottita da un maiale insieme al pastone, una fionda giocattolo lancia un sasso omicida, una neonata è uccisa a morsi dal fratellino, un bambino morto sembra tornare dall’aldilà e altre cose pochissimo belle). Il diavolo, probabilmente (era il titolo di un film di Robert Bresson). Che si scatena però non tra le brughiere inglesi, nel castello di Dracula o negli scantinati di New York, ma nell’Italia da strapaese di Giovannino Guareschi, divisa tra Peppone e don Camillo. Mamma mia che impressione!
Fabio Canessa
Preside del Liceo Olistico Quijote
A chiudere il cerchio arriva “Il signor Diavolo”, il nuovo strepitoso e terribile romanzo gotico di Pupi Avati (edito da Guanda, ve lo consigliamo a bestia), che innesca nella campagna veneta degli anni Cinquanta vicende horror da sgomento (da IL DIAVOLO PROBABILMENTE, editoriale di Fabio Canessa)
da La casa dalle finestre che ridono (1976) diretto da Pupi Avati