“Chiedo solo una cosa: la lealtà sportiva” Pierre de Coubertin
La Russia è stata bandita, per quattro anni e a causa di doping di stato, da tutte le principali manifestazioni sportive a partire dal 2020. I suoi atleti, se vorranno gareggiare, dovranno farlo senza una bandiera, da apolidi. Sigmund Freud sosteneva che “una rivalità non è necessariamente un’ostilità”, ma comunque spesso si può notare che la rivalità sia quasi una perversione derivante dallo spirito competitivo, da sempre pervasivo negli uomini. Vogliamo competere, perché vogliamo vincere. Perché vincere aumenta la stima del mondo circostante, e fa aumentare a dismisura il nostro potere. L’eccesso di stima ha varie controindicazioni, e la più preoccupante è quella di far sentire al di sopra delle parti, rendendo immuni i sovrastimati da qualsiasi occasione di autocritica. Quasi dei semidei. Forse è questo, in uno dei più grandi misteri della religione, ad aver tradito Lucifero, facendolo precipitare in un’oscurità eterna senza fine. Forse una moltitudine di angeli, anch’essi poi diventati a loro volta demoni, lo avevano circondato di troppi attestati di stima, facendogli dimenticare che la natura angelica non poteva essere certo paragonata a quella di Dio, per il semplice fatto che essendo da Lui stata creata dal nulla non poteva essere “perfettissima”. E allora diventa perfettamente normale porsi, un bel giorno, la domanda delle domande: cosa posso fare per vincere? La risposta è sempre la stessa, ovvero usare ogni pratica possibile per aumentare le prestazioni mentali e fisiche. Alcuni resoconti storici raccontano come gli atleti dei Giochi di Olimpia facessero uso di erbe per aumentare la resistenza fisica, giungendo addirittura a nutrirsi di testicoli di toro, rubricati come antesignani degli odierni ormoni testoridei. Molta acqua passò sotto i ponti fino al XVII secolo, dove la scienza sperimentale cominciò ad analizzare la materia e le sue trasformazioni: la chimica aveva fatto irruzione nella storia umana. E questo cambia decisamente tutto, perché da quel momento la ricerca della perfezione portatrice di vittoria diventa un affare dalle molte derivazioni. Da quel momento le persone combattono e ardono per trovare il loro magico stato “perfettissimo”. Vogliono la stima, vogliono la vittoria, vogliono il denaro, vogliono i privilegi. E più la chimica si evolve, più il concetto “di illecito sportivo” diventa uno spot per qualche giornata dedicata al politicamente corretto. Nel caso della Repubblica Democratica tedesca (DDR), con il famoso “Piano di Stato 14.25” Manfred Ewald, capo dello sport della Germania comunista, assicurò 160 medaglie d’oro olimpiche e 3500 titoli internazionali utilizzando il più massiccio programma di doping di stato mai portato avanti. Quello che il poeta dissidente Wolf Biermann definì “uno dei più grandi esperimenti mai eseguiti sui corpi umani” (a breve Carmelo Pennisi, che collabora a questi editoriali, sarà sul set per girare un film di coproduzione anglo/tedesca su questa storia). Ci furono due aspetti inquietanti in questa vicenda, e cioè il desiderio della politica della DDR di competere e vincere con le altre nazioni per esaltare il proprio modello di vita, e la ricerca degli atleti di competere e vincere sui propri connazionali, visto che il loro status di atleti di eccellenza gli faceva godere di una grande libertà di movimento all’estero e benefici sociali inimmaginabili per tutti gli altri cittadini della DDR. Vite anch’esse illusoriamente “perfettissime” queste degli atleti dell’ex Germania comunista, terminate con malattie gravissime e con atti di vendetta subite dai loro connazionali dal giorno dopo la caduta del Muro di Berlino. E mentre oltre la “Cortina di Ferro” erano gli stati ad organizzare la via della perfezione, in occidente erano, molto più banalmente e forse ferocemente, i soldi e il successo a determinare l’inizio dell’uso sistematico del doping per cercare a tutti i costi la via della vittoria. Così fa la sua comparsa, nel mondo dello sport e in special modo nel calcio, il fenomeno del doping finanziario. Probabilmente meno grave del doping effettuato sul corpo umano, ma sicuramente foriero di degrado sia del concetto di lealtà sportiva, che di stravolgimento e sconquasso finanziario dell’ordine naturale delle cose con cui lo sport moderno era andato avanti per oltre un secolo. Siamo agli sceicchi che nella ricerca del loro “perfettissimo” utilizzano le ingenti risorse finanziarie a disposizione per abbattere le tradizioni dello sport europeo. Presto, purtroppo, si assisterà con tristezza alle macerie da loro lasciate. Siamo ad una Cina protagonista di un neo capitalismo fondato su un enorme forza lavoro a basso costo (siamo quasi alla schiavitù) a cui è stato consentito l’ingresso sul mercato mondiale, e che utilizza gli enormi capitali accumulati anche per condizionare lo sport moderno. Una Cina da tempo sospettata di far fare ai suoi atleti ricorso al doping (numerose sono state le squalifiche), aiutata in questo funesto percorso da diversi tecnici figli del sistema DDR. In questo contesto da far accapponare la pelle (molte sarebbero ancora le considerazione da fare), fa sorridere amaramente questo particolare accanimento contro la Russia. Non perché sia innocente, ma perché da qualche anno qualcuno vorrebbe fare apparire la pratica del doping come un’esclusiva del Paese guidato da Vladimir Putin. La cosa fa venire facilmente il sospetto che sia proprio Putin l’obiettivo di questa campagna, e come quindi lo sport venga utilizzato per fini non proprio nobili, come quello della furiosa lotta geopolitica in atto nel mondo. Non si pensi qui si voglia difendere Putin, ma piuttosto far notare ancora una volta la perversione della ricerca della competizione indirizzata a chissà quale felicità “perfettissima”. Una felicità “perfettissima”, che ha portato il mercato del doping all’interno delle palestre dello sport amatoriale, promesse di felicità “perfettissime” raggiunte attraverso corpi scolpiti da una chimica feroce. Un mercato mondiale da miliardi di dollari. Sono e saranno macerie anche lì. A pensarci fa sorridere l’ingenuità di Pierre de Coubertin, per lui l’importante era partecipare, non vincere. Forse una risposta a tutta questa follia potrebbe venire dall’Uomo di Nazareth, il quale duemila anni fa scelse di farsi mettere in croce, scelse di accettare la sconfitta. E probabilmente quella sconfitta fu un esempio di vittoria senza macerie. Perché bisogna saper perdere, per imparare a saper vincere con lealtà, rispetto e verità. Ma vallo a spiegare a Lucifero…
Anthony Weatherill (ha collaborato Carmelo Pennisi)
Perché bisogna saper perdere (da LA RUSSIA, IL DOPING, IL COMPETERE – Editoriale di Anthony Weatherill, ha collaborato Carmelo Pennisi)