SALMO 222 UOMINI UMANI E DA QUI DIVINI


Editoriale del 4 gennaio 2020

 

Dal poco di cronaca che possiamo ricostruire, sappiamo che almeno due volte Gesù perse la pazienza.

Una, molto pubblica, gli costò la vita, quando prese una frusta (altro che due schiaffetti sulle mani, divenuti schiaffi in faccia in alcuni linguaggi da social media manipolatori), e scacciò dalla santa piazza del tempio i molti santi devoti venuti per la festa più santa e che santamente si attrezzavano dai money changers con soldi santi ad offrire al Trevoltesanto, in sacrificio di santo sangue a fiumi, le piccole o grandi bestie considerate, per loro sfortuna, senza-difetti-sante. Gli chiesero, per cominciare, con quale autorità voleva ristabilire una casa di preghiera diventata mercato e qualche giorno dopo finirono per metterlo in croce, vittima senza tempio.

L’altra, molto privata (e gli costa ancora lo sconcerto dei santi commentatori), quando la mattina dopo, ritornando a Gerusalemme, «ebbe fame», e «visto da lontano» un albero di fichi dalle molte foglie a promettere frutti, «si avvicinò per vedere se per caso vi trovasse qualcosa ma, quando vi giunse vicino, non trovò altro che foglie», e «rivolto all’albero disse: Nessuno mai più mangi i tuoi frutti». Il vangelo di Marco peggiora le cose, quando, quasi a difesa dell’innocente pianta, dice:

«Non era infatti la stagione dei fichi». Come se non bastasse, ripassando per la medesima strada la mattina dopo, Pietro, non so se con stupore o paura o senso di partecipe vendetta da affamato deluso, fa notare a un Gesù che sembra distratto: «Maestro, guarda: l’albero di fichi che hai maledetto è seccato».

A questo punto, gli esegeti del pronto soccorso della santità di Gesù, ignorando del tutto gli effetti della sua fame e il suo bisogno di un fico fresco al mattino (io mi fermo a immaginare, in questa Gerusalemme di polvere gialla e burocratica, la sua nostalgia dei fichi dolcissimi e freschi gustati nella verde e familiare Galilea, in altri mattini di fame saziata) si dilungano sul senso simbolico dell’albero-tempio diventato sterile e sull’insegnamento di Gesù sulla preghiera capace, se fatta con fede, a spostare «questo monte» al mare. Insegnamento che, se astratto dal contesto e lasciato in una nebulosa di spiritualità disincarnata, credo che a qualsiasi lettore debba apparire come una excusatio non petita e fuori luogo. A meno che.

A meno che, Gesù mio, affamato deluso,

sorpreso dalla tua stessa parola efficace,

tu non ci stia mettendo in guardia

dal potere inaudito di ogni parola sincera,

e stia da una parte rincarando l’impazienza,

immaginando «questo monte», che però è il monte del tempio,

scaraventato nel mare,

e d’altra parte stia davvero ritrattando

i tuoi stessi gesti di impazienza, dicendo:

«Quando vi mettete a pregare,

se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate,

perché anche il Padre che è nei cieli

perdoni a voi le vostre colpe».

 

A quali «qualcuno» pensare in quel testo,

se non al monte e al fico?

Cosi, quel giorno stesso, l’albero di fichi

l’hai fatto protagonista della parabola di chi sa capire i tempi,

e quel monte, invece di gettarlo al mare,

su quel monte e per quel monte

ti sei lasciato innalzare su una croce

a risanare ogni santa violenza.

 

Antonio Pinna

Salmista ad Aristan

 

scacciò dalla santa piazza del tempio i molti santi devoti venuti per la festa più santa e che santamente si attrezzavano dai money changers con soldi santi ad offrire al Trevoltesanto, in sacrificio di santo sangue a fiumi, le piccole o grandi bestie considerate, per loro sfortuna, senza-difetti-sante (da SALMO 222 UOMINI UMANI  – Editoriale di Antonio Pinna)

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