La “resilienza” viene tirata in ballo a ogni piè sospinto per spiegare come si possa vivere in una condizione di disagio apparentemente irrisolvibile. Vengono universalmente magnificate le capacità di adattabilità che hanno persone e popolazioni che sopportano traumi, sventure, torture e povertà (“…Mi piego ma non mi spezzo”). Così recentemente abbiamo conosciuto persino la “resilienza social” dei romani, rassegnati ad abitare una città con strade piene di buche e invasa dai topi. Si intravvedono però segnali di intolleranza. All’ingresso dell’Università di Lancaster (UK), un cartello recita: “Don’t call me resilient!” (“Non chiamatemi resiliente!”). Ma a dire il vero, anche a New Orleans, dopo l’uragano Katrina, erano comparsi manifesti sui muri della città con la stessa scritta, affissi da residenti stanchi di vivere tra le macerie. Non sono in pochi a sostenere che mettere l’accento sulla resilienza aumenti la passività e la rassegnazione delle persone. Non sarebbe meglio ribellarsi o cercare di risolvere tutto ciò che ci rende resilienti? La resilienza uccide la prevenzione, l’arma più potente per sconfiggere disastri e malattie. Per eliminare i topi dalle città non basta riderci sopra, bisogna prima far sparire i rifiuti dalle strade.
Marco Schintu
(Ufficio pesi e misure di Aristan)
Così recentemente abbiamo conosciuto persino la “resilienza social” dei romani, rassegnati ad abitare una città con strade piene di buche e invasa dai topi” (da NON CHIAMATEMI RESILIENTE, editoriale di Marco Schintu)