L’amore cantato con metafore può essere distrutto dai “disegnini” di un epigrafista, e di esegeti ammiratori di epigrafisti? È quello che, secondo me, è successo a Benigni dopo che ha studiato molto su libri di chi a sua volta aveva studiato molto.
Un esempio ancora “tecnico”, da lettore di poesie, e non da interprete teologico o ideologico del Cantico. Lei ha visto Lui avvicinarsi alla sua casa, balzando sulla collina come gazzella o cerbiatto, e ora vede i suoi occhi «sbirciare brillanti» dalla finestra, che Lei, guarda un po’, tiene socchiusa, aspettando di sentire la sua voce. Ed ecco, la voce di Lui: forte e tenera, della stessa linfa che fa sbocciare i primi fiori e frutti a primavera, fichi e viti, perché «l’inverno è passato e il tempo del canto è tornato», quella voce la invita appassionata a non nascondersi come colomba ritrosa, a farsi vedere, a mostrare il suo volto e a far sentire la sua voce. Ed ecco, la voce di Lei: ha tenuto socchiuse le finestre e si è sentita paragonare a ritrosia di colomba, e ora risponde, a schermaglia insieme tenera e maliziosa, intrigante e provocante, intonando uno di quei stornelli che noi potremmo immaginare cantati a “trallaleru” durante un pranzo di matrimonio, quando tutti hanno bevuto quanto basta per essere allegri e maliziosi senza esagerare:
«Prendeteci le volpi,
le volpi piccoline
che guastano le vigne…
e le nostre vigne sono in fiore». (2,15)
Qualsiasi invitato a un pranzo di matrimonio ha sufficiente allegria per gustare lo “scherzo” musicale, comprendendo benissimo di quali volpi siano in cerca di quali vigne. E non ci sarà nemmeno bisogno di essere esperti in antifrasi, di cui la lingua sarda è ricca, per capire quali vigne si stiano offrendo in tutta la loro fioritura dietro un apparente no, destinato solo ad accendere il desiderio.
Ma ecco che arriva l’epigrafista a dirci che il v. 15 è incomprensibile, «non per la lettera del testo» che è «semplice» (bontà sua), ma «per la sua presenza nel contesto». Infatti, secondo lui, il nostro “stornello” sarebbe «privo di senso» se non arrivasse lui a rivelare che le volpi, in realtà, non sono volpi, ma «i muscoli delle anche, lombari», e questo perché lui sa che il termine greco usato dalla traduzione (ma il nostro testo originale non era in ebraico?) oltre che “volpi” vuol dire anche «muscoli delle anche, lombari», senza per altro portare nessun testo a conferma. Oltre che stupiti per tanta cultura filologica fuori posto, restiamo ora anche un po’ perplessi sul senso finale di quell’aggettivo, “piccolo”, a questo punto un po’ offensivo e davvero “fuori contesto” in tutti i (doppi) sensi, perché non potremmo fare a meno di abbinarlo alla “misura” di quello sfuggente “muscolo delle anche, lombare”… Con buona pace proprio di quel contesto che tanta scienza filologica si credeva la sola capace di “ricostruire”, e che invece distrugge, letteralmente e in tutti i (non doppi) sensi.
Compresi quei sensi che hanno reso possibile inserire il Cantico fra i libri sacri prima dell’ebraismo e poi del cristianesimo, facendo del desiderio tra l’uomo e la donna la metafora del desiderio di Dio verso la “sua” umanità e dell’umanità credente verso il “suo” Dio, vedendo infine in Gesù il luogo di incontro fra questi due desideri di reciproco e totale, e quanto totale, abbandono.
Se, dopo tanto studio, noi torniamo alla famosa lettera del testo, che era detta “semplice”, ci accorgiamo che era ancora più semplice da capire, visto che appare davvero come uno “scherzo” musicale e intelligente, ma per una “intelligenza d’amore” capace di vedere il “corpo” del testo, che sa apprezzare e gustare proprio in quella sua “corporeità” di testo metaforico, nelle parole e nel loro suono fatto corpo, il quale, dopo aver giocato con le vocali veloci e brevi , la “e” e la “i” dei plurali che si rincorrono anch’essi veloci come volpi, si espande infine nelle sonorità aperta delle “a” di “semadàr”, la visione conclusiva delle “vigne in fiore” che si offrono a compimento e beatitudine (come avviene proprio nei versi successivi del testo ebraico):
‘echezú-lànu shualím
shualím qetaním
mechabbelím keramím…
u-keramènu semadàr.
E mi viene in mente, Signore, l’ironia delle parole
messe dal vangelo di Giovanni in bocca ai “nemici”
quando sfidano Nicodemo che aveva azzardato una tua difesa:
«Studia, e vedrai che non sorge profeta dalla Galilea».
E tu, Signore eri di fronte, profeta della Galilea,
“corpo” invisibile a chi sa molto senza sapere ciò che conta.
Antonio Pinna (Salmista ad Aristan)
«Prendeteci le volpi,
le volpi piccoline
che guastano le vigne…
e le nostre vigne sono in fiore». (2,15) – Da METAPHOR IS A METAPHOR IS A METAPHOR (2) – Editoriale di Antonio Pinna (Salmista ad Aristan)