«Nati due volte», è titolo di un romanzo di Giuseppe Pontiggia su cosa succede in una famiglia quando nasce un figlio disabile. I bambini disabili nascono due volte, e la seconda volta la gestazione è più lunga di nove mesi e il seno che si ingrossa non è più quello di un corpo di donna, ma quello di tante anime che accettano di rinascere insieme, tutti due volte.
I figli d’anima sono “i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra.” È l’incipit del romanzo Accabadora quando inizia la storia di “Maria Listru, frutto tardivo dell’anima di Bonaria Urrai”. Il romanzo di Michela Murgia ha introdotto nella lingua italiana questa espressione nata nella cultura sarda. Introdurre una espressione nuova in una lingua diversa non avviene su comando. La lingua non obbedisce ai linguisti. Ma nemmeno ai legislatori. Oggi si pensa che ogni cosa deve essere regolata da leggi, e ogni legge è una conquista per alcuni e una vergogna per altri. In Sardegna, i figli d’anima non nascevano per legge. L’anima di una comunità sapeva come avere cura dei suoi figli al di là dei legami di sangue e al di qua di ogni legge promulgata su gazzette ufficiali. Quando per ogni cosa ci vuole una legge a parlare di reati e di colpevoli, forse vuol dire che si è persa l’anima? O almeno quell’anima, di quella comunità. Perché in un mondo globale e social, non si riesce a parlare che di diritti di individui isolati.
«Per crescere un bambino ci vuole un villaggio»,
diceva un antico proverbio africano.
Sarà per questo, Signore,
che anche tu hai voluto essere
“fiz’e ánima”?
Non solo di Giuseppe ma anche di Maria.
Forse i figli veri, Signore,
nascono solo da madri e padri vergini.
Antonio Pinna (Salmista ad Aristan)
che anche tu hai voluto essere
“fiz’e ánima”?
Non solo di Giuseppe ma anche di Maria.
Forse i figli veri, Signore,
nascono solo da madri e padri vergini.
Da FILLUS DE ÁNIMA – Editoriale di Antonio Pinna (Salmista ad Aristan)