SENTIRSI AGASSI


Editoriale del 29 dicembre 2019

A riguardarle, le immagini di Wimbledon 1992, si capisce che hanno dentro tutto. Il figlio dell’immigrato iraniano dai capelli color paglia e i piccoli occhi tondi, si copre il viso con le mani, incredulo. Sempre a un passo dal ritiro, sempre a inseguire Pete, il Sampras che ha scandito ogni passaggio della sua vita tennistica, Andre Agassi abbraccia in uno sguardo solo la vittoria, il suo sapore effimero, l’incapacità di vivere e di giocare a tennis, l’impossibilità di smettere. Ossessionato dalla disciplina e dalla fisica paterna fatta di angoli e ripetizioni estenuanti, divorato dall’inadeguatezza, fragile e perdente contro se stesso, è forse l’atleta che più di ogni altro ha saputo rinascere. Non dopo un infortunio o un rovescio della sorte. Agassi la sorte storta se l’è costruita (e rovesciata) da solo, nella tormentata ricerca della perfezione, nell’affanno di diventare ciò che gli altri volevano che fosse, nel non poter più essere altro. Dopo la prima pagina, Open. La mia storia, l’autobiografia uscita qualche anno fa in Italia per Einaudi, è una prigione che non contempla fughe, fino all’ultima riga. Ci sono il deserto, gli short di jeans, le meches, gli anni Novanta, gli spot i TV, le copertine di Sport Ilustrated appese nelle camerette degli adolescenti, il cinema hollywoodiano e la musica pop. C’è la follia della fatica fisica e il piacere crudele di quando la si supera e si diventa immortali e si potrebbe decidere di non fermarsi più, c’è l’angoscia di chi sa il proprio valore ma non lo vede mai prendere forma e oscilla tra il dubbio di essersi confuso a pensarsi grande e l’adrenalina di una giornata epica che sembra confermarlo al mondo. C’è la solitudine insindacabile e definitiva di un portiere che si prepara a parare una lunga serie di rigori con milioni di occhi addosso. La consapevolezza improvvisa del corpo, quella che arriva appena passata la giovinezza: non più un mezzo spinto da una meccanica inconscia e scontata ma un groviglio di terminazioni nervose e tensioni e ingranaggi che si rivelano in un lucido sentire. E la meraviglia del suono di una palla colpita come va colpita, il suono profondo e tondo del colpo nitido, nettato dalla paura, dallo scomporsi degli arti, dall’attrito e dall’aspettativa. Quell’istante misterioso che unisce braccio e mente in una traiettoria disegnata con chiarezza. dall’intenzione. Aver colpito una palla, male, anche una volta sola, nel campo più scalcagnato della periferia più desolata, in pasto alle zanzare e all’umidità, in un’età che insegna che è troppo tardi ma non è assolutamente troppo tardi, quando si legge Open, è una benedizione casuale di portata epica. Uno schiaffo a chi pensa che non si possa cambiare e diventare quello che si è si è sempre stati. Una febbre incurabile che ti fa pensare di mettere dentro un servizio perfetto, anche se il tuo servizio è una mozzarella in putrefazione. La certezza che il prossimo sarà strabiliante.

Eva Garau (Precaria di Aristan)

 

https://youtu.be/xo3Jv-WT3jQ

A riguardarle, le immagini di Wimbledon 1992, si capisce che hanno dentro tutto. Il figlio dell’immigrato iraniano dai capelli color paglia e i piccoli occhi tondi, si copre il viso con le mani, incredulo (da SENTIRSI AGASSI  – Editoriale di Eva Garau)

« Archivio »

  • MANIFESTO DI ARISTAN


    ANTEPRIMA
  • PROMO ARISTAN ROBERTO PEDICINI


  • INNO


  • IL TEMPO DEI TOPI DI FOGNA


  • CIAO NADIA