SOMMI POETI


Editoriale del 13 ottobre 2015

Scrivere oggi di poesia significa intraprendere un’impresa difficilissima. Perché lo status attuale della poesia si colloca fra il più avvilente declassamento di un genere che è cresciuto in quantità quanto si è immiserito in qualità e un’aura di antica nobiltà ancora capace di incutere soggezione ai lettori. Fra la debacle di un mercato quasi virtuale, ridotto a una nicchia marginale di appassionati chiusa in uno specialismo spesso solipsistico, e la patente passepartout del titolo di poeta, di fronte alla quale nessuno osa fare apertamente spallucce, probabilmente per il timore reverenziale esercitato da una autorevole tradizione italiana che va da Dante a Montale. Un timore rimasto ormai la pallida ombra della sincera venerazione tributata ai vati nazionali, si chiamassero Petrarca o Ariosto, Carducci o D’Annunzio, ma ancora in grado di fornire uno scudo abbastanza solido contro le bordate di fischi che rischierebbero di partire contro l’assenza di talento, l’incapacità di emozionare o l’oscurità della comunicazione. Fatto sta che “leggere poeti italiani contemporanei è quasi sempre esasperante”. Parola del critico Alfonso Berardinelli, che si è interrogato sulle ragioni della insopportabilità dei poeti odierni, in un aureo libriccino Einaudi intitolato “Poesia non poesia”. La risposta è già contenuta nel gesto stesso di autodichiararsi poeti: “credo che oggi il più insidioso e temibile nemico della poesia sia la poesia stessa, o meglio la sua idea, il suo mito, la sua nobiltà tradizionale: un valore che appare tuttora, immotivatamente, garantito di per sé come eccellente. Meglio ancora: credo che oggi i veri nemici della poesia siano i poeti, che scrivono quello che scrivono mettendosi al riparo, sotto la protezione della nobiltà del genere letterario”. Se “in poesia, si comunicano cose non già comunicate e lo si fa in modi non previsti né controllabili”, indicare sulla carta di identità la professione di poeta implica di per sé il tradimento di ogni imprevisto e incontrollabilità, perché ci si identifica in partenza in una forma preconfezionata di artista della parola che non prevede una tensione verso il prodotto, ma viceversa. Cioè non più uno scrittore che lavora per creare poesia, ma un poeta autoproclamatosi tale a priori, per cui ne conseguirà che dovrà essere considerata poesia ogni riga gli passi per la mente di scrivere. Allora il suggerimento di Berardinelli per guidare il lettore che voglia farsi largo nella fitta macchia della fluviale produzione in versi della contemporaneità è quello di non partire dal poeta ma dalla poesia, non dal servile ossequio a una qualifica ancora verdeggiante di alloro ma dalla freschezza dell’impatto con il testo: “io non credo nella poesia. Credo soltanto in quelle poesie che mi fanno credere in loro. Se convince il lettore, la poesia non ha bisogno di essere difesa. Se non lo convince, come e perché difenderla?”. A suo modo, è un uovo di Colombo: non vi fate impressionare dalle stellette del ristorante, dalla voluminosa carta dei vini o dal cappellone del cuoco, assaggiate invece le pietanze e, se le troverete appetitose, dite pure che le ha cucinate un grande chef.

Fabio Canessa
preside del Quijote, Liceo Olistico di Aristan

COGLI L’ATTIMO

 

da Berlinguer ti voglio bene (1977) diretto da Giuseppe Bertolucci, interpretato da Roberto Benigni. Bozzone è Carlo Monni

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