* Trovate i suoi magistrali dialoghi con Antonangelo Liori ogni domenica sui social dell’Università di Aristan
C’era una volta Maria Lai… Ho riscritto dieci, venti volte, l’inizio di questo racconto sulla lezione, la quinta, all’Università di Aristan. Ma ogni tentativo è finito nel cestino. Ho strappato dal video la schermata bianca, o quasi. Ne ho fatto una pallottola di bit e l’ho gettata sotto la scrivania in carne e ossa. Così ho passato un’intera notte e la mattina seguente. Sempre lo stesso: occhi accesi sul monitor. Pensieri su aghi e fili. Dita bloccate sulla tastiera. Ricomincio: C’era una volta Maria Lai e le sue Fiabe, al gerundio. All’imbrunire mi sono sentito un bambino. Un incapace, disordinato, meritevole di finire assieme a tutti gli altri scarti, stropicciati. Così ho spostato gli occhi su quel mucchio di respinti. Ero lì. Ma che stupore: appallottolati uno sull’altro, eravamo incredibilmente cuciti. Sì, preciso. Lei, Maria Lai, ha cucito con le sue dita le nostre esistenze. Ci ha voluto raccontare da sempre. Così ho capito, forse, che la bellezza del mondo non è di questa terra neppure di questo pianeta. Ma delle sue Fiabe. Pazzesco.
Questa non è una favola. Come l’evento incommensurabile vissuto in via monsignor Cogoni a Cagliari, non è una lezione. Perché Maria Lai non è stata. Guai a incardinarla. Guai a imbrigliare le sue visioni. La sua arte fluttua e sfugge. Questo lo ha indagato molto bene solo Aristan, fluttuante per genesi, con Francesco Casu, Romeo Scaccia e l’immateriale Bachisio Bandinu, luminoso e ialino. Voce e passione incorporee che escono da un device e incantano: «Salendo i gradini del Siotto, Maria mi diceva: non facciamo una lezione, raccontiamo una fiaba ai ragazzi del liceo, raccontiamo una fiaba, questi ragazzi sono dentro un’architettura, una istituzione. Una stanza. E ascoltano lezioni prestabilite secondo i programmi ministeriali. Noi racconteremo fiabe». Poi Bachisio-parola svela: «Così, appena seduta ha fatto tre e quattro secondi di silenzio e tutti abbiamo ascoltato il linguaggio del silenzio. Poi ha iniziato con la parola “libera”, della favola. I ragazzi erano incantati perché non ascoltavano linguaggi preformati. Allora ho detto agli studenti: avete ascoltato parole libere, la Fiaba». E ancora: «La parola è sempre libera, ingovernabile. Non può appartenere al potere che organizza il discorso». È libera «perché viene dalla pulsione. Non ne sei più padrone neppure tu». Questo è il fondamento. Maria Lai ha abbattuto i muri e la stanza che ci imprigiona, ha scardinato le porte della storia. Certamente quelle della storia dell’arte. Che non esiste più. Come è nulla la storia della musica con lei, la storia del pensiero dell’uomo. Esistono invece Le Storie, quelle libere, non più ordinate, non più riducibili a schematizzazioni. Quelle che ci rimandano e ci legano, tutti e sempre, alla montagna. Aristan, con i tre docenti di questa epifanica lezione (il bravissimo regista di impulsi Casu; Scaccia, genio di note, e la voce errante su immagine di Bandinu) ha liberato l’immenso pensiero di Maria Lai dalle correnti preformate, appunto. Da quel discorso che ha bisogno di mettere in chiaro e mettendo in chiaro distrugge la creatività, caccia l’uomo dal Paradiso Terrestre. E tuttavia, ogni ragioniere di esistenze soffocate non riuscirà a imprigionare Maria Lai in nessuna etichetta. In nessuna organizzazione della memoria che nulla può davanti a una donna geniale e lucida come una “bambina” che gioca. Lei ha ricamato sul pensiero dell’uomo, nei suoi percorsi filosofici, estetici, musicali. E ha svelato una profonda visione dell’esistere, nelle sue fiabe dove pulsa la suprema bellezza del mondo.
«Michelangelo ci racconta come è nato l’Uomo e ce lo fa perfetto, al meglio della sua crescita animale. Troppo bello e troppo natura per essere uomo. Sappiamo che l’Uomo ha perso il Paradiso Terrestre perché non era stato bambino, non aveva giocato abbastanza. Noi siamo gli eredi di chi ha perso il Paradiso Terrestre. Abbiamo sempre bisogno di giocare perché solo così lo riconquistiamo». È Maria Lai che parla. Il gioco dunque ci salverà. Perché nel gioco si racchiude la bellezza. Non quella del fenomeno o dell’intelletto, avrebbe detto Kant, ma la bellezza della vita, quella del sub-limen. Quella «che non può esprimere umana lingua». Ovvero un sentimento così profondo che «ogni sottile analisi metafisica resta molto lontana dalla sublimità e dignità che è propria di tale intuizione». Il Gioco. Spiega Maria Lai: «Bisognerebbe ripercorrere questa storia in un mondo che ormai sembra destinato allo sfacelo. Io sono una bambina che gioca. Ogni bambino inventa di essere un altro perché la vita non gli basta, e allora nascono le storie. Raccontare le storie è un modo di giocare e di ritrovare qualcosa di un vecchio paradiso dimenticato». Non può esserci spazio per la rassegnazione o l’anestesia. Tutt’altro. È semmai ciò che per Alfred North Whitehead, uno dei più grandi filosofi del Novecento: il sentimento di Pace. O meglio «quel sentimento positivo che corona la vita» quando la gioia delle esistenze s’intreccia con la sofferenza, la perdita, la tragedia. «La Pace – sostiene Whitehead – è allora l’intuizione della Permanenza. Mantiene viva la sensibilità verso la tragedia; ed essa vede la tragedia come un fattore di vita che persuade il mondo a puntare verso la bellezza che sta oltre l’appassito livello del fatto che ci circonda. Ogni tragedia è il dischiudersi di un ideale; ciò che poteva essere e non è stato, ciò che può essere». La capacità di permanere in questo sentimento è in Maria Lai il senso profondo della Fiaba, nonostante la vita si intreccia, appunto, con la tragedia e le brutture. Nonostante l’ombra da tenere per mano. E lei conosceva bene questo volto atroce della vita. L’uccisione in un agguato del fratello più piccolo Lorenzo, era il 24 maggio 1955, è un punto fermo del suo volare verso la Leggerezza. Un vivere fuori dalla gravità come le pitture di Oskar Kokoschka o, meglio, come quel delirio geometrico di Vasilij Kandinskij. «Furono tre gli angeli del mio volo successivo», scriverà Maria ne “L’isola dei miei naufragi”, riflettendo sulla sua esistenza. «Lo zio Manfredi, tirandomi fuori dalla malattia; Salvatore Cambosu, con la sua fiducia nella mia possibilità nell’arte, nonostante le convenzioni di quel momento storico; Lorenzo, il più giovane dei miei fratelli, la cui tragica fine mi suggeriva: “La vita è breve, non perdere tempo”». E tutto questo, in una bella sera di metà febbraio, ha attraversato profondamente i silenzi di un’aula magna con la musica di Romeo Scaccia.
Solo Tenendo per mano l’ombra è possibile vivere l’affascinante percorso dove arte e vita sono unite da ago e filo. Solo stringendo l’ombra si capisce l’ineluttabile necessità di accettare la parte oscura del mondo e di se stessi. «Tenendo per mano l’ombra significa tenere se stessi e l’altro. Non c’è l’uno. C’è il plurale. Chi abbandona l’ombra, chi cerca di liberarsene, viene inghiottito. Chi invece cammina tenendola stretta apre orizzonti». Tenendo, creando, inventando ridendo: un’esistenza al gerundio. Io vivo il gerundio. «Il modo più bello, più ricco, del verbo perché non ha una fine e non ha un inizio. Permane nel tempo». E nel gioco. Pazzesco.
Tempo di lettura: di Salieri, Vivaldi e Vangelis “Variazioni sul tema de La Follia di Spagna”. Dirige: Lola